“Nel periodo tra le due guerre lo sport diventò, come riconobbe prontamente George Orwell, espressione della lotta nazionale, e gli atleti che rappresentavano la nazione o lo Stato diventarono l’espressione per eccellenza delle loro comunità frutto di immaginazione. […] Una comunità di milioni di individui frutto dell’immaginazione sembra più reale sotto forma di undici persone con nome e cognome. E l’individuo, anche quello che si limita a fare il tifo, diventa un simbolo della propria nazione”.
Così si esprimeva Eric J. Hobsbawm nel suo fortunato Nazioni e Nazionalismo (Einaudi, 1991). Per nazioni appena nate, da costruire e impiantare nell’immaginario collettivo della gente, il calcio divenne uno strumento utilissimo. I nuovi stati dell’Europa centro-orientale, nati dopo la disgregazione dei grandi imperi, avevano un disperato bisogno di rappresentazioni concrete della loro esistenza, laddove, da un punto di vista politico e istituzionale, l’intera impalcatura nazionale risultava ancora debole. Tuttavia, il grande problema di questi anni, la gestione di cospicue minoranze nazionali entro i propri confini, si ripercosse anche nel mondo del pallone. Già dagli anni ’20 la grande domanda era la seguente: cosa fare con gli oriundi?
L’arrivo degli ungheresi. Una “rivoluzione” calcistica
Nel 1918 la Romania raddoppiò la sua superficie grazie all’acquisizione della Transilvania, del Banato, della Bessarabia e della Bucovina. Quello che fino all’inizio della prima guerra mondiale era un piccolo stato dalle modeste prospettive, si era trasformato in una media potenza regionale. L’ingrandimento territoriale comportò l’acquisizione di una grossa minoranza ungherese. I magiari avevano col calcio un rapporto molto più stretto rispetto ai romeni. Già dall’inizio del secolo a Budapest si respirava calcio, se ne parlava e se ne scriveva; molto più di quanto non avvenisse a Bucarest. I giovani transilvani di lingua ungherese che vi si recavano ne coglievano anche l’atmosfera sportiva, riportandola nella loro regione e i giornali ungheresi, nazionali e locali, dedicavano ampio spazio allo sport. Gli ungheresi che nel 1918 si ritrovarono (più nolenti che volenti) in Romania, vi portarono quindi la loro tradizione calcistica. I primi campionati nazionali, cui parteciparono anche squadre delle regioni acquisite dopo il 1918, vennero vinti dal Chinezul Timisoara, che si impose più volte anche sulla Venus Bucarest, la squadra più titolata della capitale. Piccolo ma non insignificante particolare: l’undici titolare del Chinezul era formato interamente da giocatori di madrelingua ungherese. Il titolo tornò nella capitale soltanto nel 1929, sempre con la Venus. La spina dorsale delle selezione romena che partì per il mondiale del 1930 in Uruguay era pertanto formata da etnici ungheresi. Tra gli undici che all’esordio al mondiale sconfissero per 3 a 1 il Perù vi erano cinque magiari, tre tedeschi (altra cospicua minoranza della Romania interbellica) e un ebreo; soltanto due erano i romeni “puri”.
Una nazionale più romena
Il peggioramento delle relazioni politiche con l’Ungheria, e la crescita impetuosa di una cultura nazionalista estrema, colpirono anche il calcio. La romenizzazione della nazionale iniziò a diventare un tema all’ordine del giorno, nonostante la vittoria nella Balcaniada del 1933. Il presidente della federazione calcistica, V.V. Tillea, si impegnò attivamente nel progetto di rendere più romena la nazionale; fu lui a partorire la famosa formula dell’“8+3”: otto giocatori avrebbero dovuto essere obbligatoriamente romeni, lasciando solo tre posti ad esponenti delle minoranze. Il progetto venne implementato per la prima volta nella Balcaniada del 1935, ma i risultati furono disastrosi. A soli due anni dalla vittoria del 1933, la Romania chiuse ultima. Di fronte alle numerose sconfitte, i progetti di purezza etnica vennero abbandonati; neanche i più estremisti erano disposti a continue umiliazioni in difesa della “romenità”. D’altronde, in quegli stessi anni, anche le tribune di Bucarest avevano iniziato a palpitare per un magiaro: Gyula Baratki aveva portato il Rapid alla ribalta della scena calcistica cittadina, palesando finalmente la possibilità di scalzare la Venus dal suo dominio incontrastato. La “meraviglia bionda”, così come veniva soprannominato, una mezz’ala destra che combinava forza fisica e piede educato, guidò il Rapid Bucarest alla vittoria di sette coppe di Romania alla fine degli anni ’30. Baratki, godendo della doppia cittadinanza, aveva esordito nella nazionale ungherese, per poi successivamente optare per quella romena, con la cui maglia giocò venti partite, segnando 13 gol.
Una storia povera di successi
Per molto tempo la Romania calcistica continuò ad affidarsi alle sue minoranze per evitare figuracce calcistiche. Il regime comunista dedicò molta attenzione allo sviluppo sportivo e calcistico del paese, ma bisognerà aspettare il 1986 anni per vedere una squadra di club romena primeggiare in Europa. L’allenatore della Steaua, vincitrice della Champions League, era Emerich Jenei, un romeno di etnia ungherese. Così come di etnia magiara erano due punte di diamente di quella squadra; l’ala Gavril Balint, e la punta Laszlo Boloni. E che dire poi del portiere Helmut Duckadam, lo scoglio contro cui si infransero i sogni del Barcellona, di madre ungherese e padre tedesco. I comunisti, tuttavia, non riuscirono mai a vedere una nazionale vincente. Ad allietare i durissimi anni ’90 della transizione ci pensò la grande selezione di Usa ’94, guidata dalla stella di Gheorghe Hagi. Questa sì, “finalmente”, etnicamente pura.