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Secondo i piani di Dubček e dei suoi stretti collaboratori l’attuazione del “Programma d’azione” si sarebbe potuto, e dovuto, realizzare tra gli inizi di aprile del 1968, quando fu approvato dal Comitato centrale, ed entro il XIV Congresso del Partito, previsto per il 1970.
Il grande consenso popolare, fortemente motivato dalle nuove libertà concesse, si alternava ai venti gelidi che soffiavano con uguale intensità sia da Mosca e da altri paesi satellite sia all’interno del Partito cecoslovacco.
Il 23 marzo, cinque giorni prima dell’avvio delle riunioni del Comitato centrale, Dubček era stato convocato a Dresda, su invito di Brežnev, per un incontro con gli esponenti dei paesi dell’Europa orientale su temi generici legati alla cooperazione economica. Giunto con la sua delegazione nella Germania Est Dubček aveva subito compreso che le finalità dell’invito erano tutt’altre rispetto a quelle ufficiali. In primo luogo notò l’assenza della Romania e degli osservatori jugoslavi, solitamente presenti a incontri di quel tipo, ma soprattutto si rese conto che i temi economici non erano in programma. Si trattò, in realtà, di un vero e proprio processo a Dubček e alle sue proposte riformiste. Il tribunale dei Cinque (Ungheria, Polonia, Bulgaria, Germania Est e Unione Sovietica) lo accusò di aver perso il controllo sulla stampa e sull’opinione pubblica e di essere a un passo dalla “controrivoluzione”.
Le velate intimidazioni non ebbero ripercussioni immediate, Dubček rigettò cortesemente le accuse e ai primi di aprile il Comitato centrale, come noto, approvò il Programma d’azione. Seguirono le nuove nomine: Svoboda alla Presidenza della Repubblica, Smrkovský alla presidenza dell’Assemblea nazionale, Černík, primo ministro.
I lavori finalizzati alle riforme furono avviati immediatamente, ma altrettanto immediatamente furono ostacolati da ingerenze moscovite: già il 14 aprile Brežnev inviava una lettera carica di preoccupazione per l’evoluzione riformista. Nel frattempo il maresciallo sovietico Jakubovskij informò il Primo segretario che era sua intenzione anticipare a giugno le già previste manovre militari sul territorio cecoslovacco, la cui urgenza parve molto sospetta. Assediato da timori reali e prevaricazioni costanti, ma allo stesso tempo sostenuto da buona parte dei suoi collaboratori e dei cittadini, Dubček iniziò a premere affinché il XIV Congresso fosse anticipato di due anni. Nella seconda metà di aprile, come previsto dallo statuto del Partito, si tennero le conferenze delle organizzazioni regionali e provinciali in cui furono eletti i delegati al Congresso; la maggioranza si espresse favorevolmente a convocarlo entro l’anno e il 1° giugno il Comitato, all’unanimità, fissò la data: 9 settembre 1968.
A metà luglio Dubček ricevette un invito per una riunione a Varsavia; le sue condizioni, non accolte, furono chiare fin da subito: non sarebbe andato se non fossero state invitate anche Romania e Jugoslavia, gli unici due paesi chiaramente vicini al suo programma. Così non fu e i Cinque si riunirono con il preciso scopo di condannare le riforme di Praga quali opera di forze controrivoluzionarie; il comunicato conclusivo fu inviato a Praga e sarà ricordato come la famigerata “lettera da Varsavia”. Il 19 luglio il Comitato approvò la risposta che fu pubblicata su tutti i giornali cecoslovacchi a fianco del comunicato, che i Cinque diffusero ampiamente, dimenticando però la replica praghese. Come avrebbe scritto anni dopo, Dubček, consapevole del sistema antidiluviano contro cui si stava scontrando, aveva compreso che: «L’ufficio politico del Pcus teneva insieme un impero immenso, che Stalin aveva eretto, e vegliava affinché in nessun angolo di esso si formasse un’opposizione».
Mentre gli alti vertici si giocavano le sorti della Cecoslovacchia, la società civile esplodeva letteralmente nei colori di una primavera reale e simbolica che pareva inarrestabile. La televisione diretta da Jiří Pelikán offriva appuntamenti quotidiani di approfondimento e di libera informazione, lo scrittore Ludvík Vaculík aveva pubblicato su «Literární listy», il nuovo giornale dell’Unione degli scrittori succeduto a «Literární noviny», il Manifesto delle Duemila parole, una dichiarazione di adesione alla politica di riforme, ma anche un’esortazione a correggere alcune idee del passato e a innovare in maniera ancora più coraggiosa, Nascevano le prime libere associazioni. In particolare il Kan (Club degli apartitici impegnati) e il K231, dal paragrafo del Codice utilizzato dagli stalinisti per reprimere arbitrariamente gli oppositori, composto da ex carcerati politici non comunisti. Nessuno dei loro membri, così come nessuno degli intellettuali finalmente liberi di esprimersi sui mezzi di comunicazione, si abbandonò a un superficiale anticomunismo. La gioia per il nuovo corso prevalse su facili rivalse e premature rivendicazioni. Certo non mancarono ingenuità, eccessi di verbalismo e di entusiasmi quasi infantili; in alcuni casi si respirò un velato antisemitismo, che in quegli stessi mesi stava invece dilagando in Polonia e che avrebbe provocato l’esodo di numerosi cittadini di origine ebraica.
Fu comunque un diffuso senso di speranza a prevalere su tutto il resto. L’apice positivo di questo clima di rinnovamento si manifestò durante le tradizionali celebrazioni del 1° Maggio. Per la prima volta in un paese sotto l’influenza sovietica non si videro masse di uomini e donne marciare in file ordinate, ma cittadini accorsi spontaneamente dietro a striscioni autoprodotti con slogan ironici, alcuni critici, molti con tonalità divertenti. Persino il Kan e il K231 parteciparono compatti, innalzando scritte di appoggio alle politiche riformiste.
Protagonista indiscusso di quei giorni entusiasmanti fu ovviamente Dubček, un politico assolutamente nuovo nel panorama del grigiore del socialismo reale. Sorridente, mite, ma anche determinato, elegante, raffinato, ma ugualmente vicino a tutti i cittadini, incontrava il favore delle persone semplici come degli intellettuali. Celebre quanto generoso rimane il ritratto che di lui tracciò lo scrittore Bohumil Hrabal, giocoliere delle parole, incantatore sopraffino: «Un giovane che capisce e sa far valere l’ironia e l’arguzia, un giovane che si veste con l’accuratezza di un damerino, che ha sempre un fazzoletto bianco ben piegato, la cravatta e il ciuffetto pettinato come Golonka (un noto giocatore di hockey), un giovane che sa saltare dal trampolino a capofitto nell’acqua, un giovane il quale sa che il destino e lo sviluppo del ventesimo secolo dipendono dalla rivolta e dalla speranza, dall’individualità creativa e dalle masse insorte».