Continua a ricevere premi per il suo impegno nel dare voce alle sofferenze del popolo siriano, Zaina Erhaim. Giornalista e attivista di Idlib, formatasi in Inghilterra dove ha lavorato anche per il canale arabo della BBC, nel 2013 decide di tornare nella sua martoriata Siria, per raccontare da vicino gli orrori del conflitto. Dapprima pubblicando reportage e articoli da Aleppo per le principali testate internazionali e poi come coordinatrice del progetto di citizen journalism dell’Institute for War and Peace Reporting (IWPR). Si tratta di una ong che sostiene i media e la società civile nelle zone di guerra, promuovendo i diritti umani e la giustizia.
Zaina Erhaim inizia così a formare piccole classi di aspiranti reporter; uomini, ma anche donne. Insegna loro i rudimenti del mestiere, a utilizzare i social e a realizzare riprese video. Materiale che viene pubblicato su vari blog. Obiettivo del progetto quello di raccontare in maniera indipendente e il più accurato possibile la guerra civile.
L’intervista a Zaina Erhaim
«Quando sono rientrata in Siria, c’erano davvero pochi giornalisti professionisti, pochi che avessero studiato e che operassero nelle aree controllate dai ribelli. Ma c’era anche molta gente che, rischiando la propria vita, cercava di raccontare e di documentare l’evolversi del conflitto, senza avere le conoscenze e la formazione necessaria per farlo», racconta Zaina. «Così ho iniziato a formare queste persone, affinché potessero essere considerate fonti credibili dai media internazionali e arabi».
Quanti citizen journalist hai formato?
«Oltre cento. Inizialmente, i corsi erano aperti a quanti avessero un minimo di esperienza in giornalismo; erano tutti uomini. Così ho deciso di invitare alle lezioni anche alcune donne interessate ad apprendere il mestiere e, con mia grande sorpresa, ho scoperto che di aspiranti giornaliste ce n’erano tante. Oggi, abbiamo almeno 40 reporter donne attive che producono articoli e documentano quel che accade.
Molti dei giornalisti che ho seguito scrivono adesso per differenti siti web e giornali, qualcun altro lavora per dei canali televisivi. In maggioranza arabi, ma anche internazionali. Purtroppo la barriera linguistica rappresenta un grande ostacolo».
Qual è, secondo te, in Siria il valore aggiunto del citizen journalism?
«I citizen journalist locali rappresentano spesso l’unica fonte sul campo attendibile. Tutto quello che sappiamo della Siria e le notizie che riceviamo sono prodotte da citizen journalist che vivono nel Paese. A nessun giornalista straniero, infatti, è consentito l’accesso in Siria, se non al seguito delle forze del regime. E anche quando riesce ad accedere alle aree sotto il controllo governativo non è comunque libero di muoversi e lavorare, ma viene tenuto sotto costante osservazione dalle forze di sicurezza. I giornalisti “autoctoni”, dunque, sono le uniche fonti di informazione sulle quali possiamo realmente contare».
Quali sono le difficoltà maggiori per un giornalista?
«Le difficoltà sono innumerevoli. Innanzitutto perché sei in Siria e da giornalista sei di per sé un bersaglio. Poi c’è un altro ordine di difficoltà, legato al fatto che cerchi di raccontare ciò che accade in maniera indipendente e rischi di essere assassinato per questo. Infine, c’è un terzo ordine di ragioni, che riguarda le donne. In un paese fortemente conservatore come la Siria, una donna che lavora, che fa delle riprese in strada da sola, che è autonoma e indipendente, rappresenta una sfida enorme».
Zaina Erhaim, dopo 4 anni dall’avvio del progetto, è stata costretta a riparare in Gran Bretagna, dove continua la sua battaglia per la verità e per la difesa dei diritti delle donne siriane.
Per il suo impegno ha ricevuto numerosi premi. Tra questi, i prestigiosi “Peter Mackler Award” per il coraggio e l’etica nel giornalismo nel 2015, e l’“Index on Censorship” per la libertà di espressione nel 2016. Inoltre, sempre nel 2016, è stata inserita tra le 100 donne arabe più influenti al mondo dalla rivista Arabian Business.
Foto da Twitter