Nella mattinata del 5 aprile, circa 25 donne si sono radunate presso l’ambasciata irachena a Mosca per chiedere il rimpatrio delle donne e dei bambini russi che si trovano in stato di arresto a Baghdad. L’accusa è di supporto al terrorismo islamico e ingresso illegale in Iraq.
Sono per lo più mogli e vedove di uomini che hanno deciso di unirsi all’ISIS. La maggior parte è originaria della Cecenia, del Daghestan, della Kabardino-Balkaria. Stando ai dati ufficiali, si parla di 22 donne e 49 bambini, mentre Ria Novosti ha pubblicato invece una lista di 25 donne.
Proprio il 5 aprile a Baghdad sono iniziati i processi contro di loro. Come affermato dal portavoce del ministero degli esteri russo Marija Zacharova, se le accuse verranno confermate, la pena che rischiano è la morte o una lunga reclusione, anche a vita.
Il rimpatrio dei bambini di età superiore ai tre anni, soprattutto se nati in territorio russo, segue un iter facilitato. Diverso il caso dei figli nati in Iraq o Siria, per i quali è difficile ottenere documenti e conseguentemente la cittadinanza. Zacharova ha poi sottolineato come molte donne siano state costrette a distruggere i propri documenti. L’ambasciata russa ha intanto formalmente chiesto all’Iraq di permettere ai membri diplomatici di parlare con le donne in stato di arresto, perché per il momento le visite sono vietate.
Le operazioni di rimpatrio delle donne e dei bambini russi dalle zone liberate dal controllo ISIS sono iniziate nell’agosto del 2017. Sono 110 le donne e i bambini rientrati finora. È soprattutto il presidente ceceno Ramzan Kadyrov a supportare apertamente questa campagna.
Rientrate in Russia, queste donne non vengono immediatamente rilasciate, ma vengono sottoposte a un processo penale per partecipazione ad organizzazioni terroristiche illegali. In gennaio, ad esempio, Naida Šaich-Achmedova è stata condannata a quattro anni e quattro mesi, in febbraio Zagidat Abakarova a otto anni.