A quattro anni dalla fuga di Yanukovich e dall’inizio dell’insurrezione nell’est del paese, il Donbass rimane una zona grigia sulla carta dell’Ucraina. Un conflitto quasi congelato – visto che lungo la linea del fronte si continua a sparare e a morire – che come altri conflitti nelle regioni di frontiera dello spazio post-sovietico rimane nel limbo. Non è, e non può essere, un conflitto etnico, ma una guerra le cui cause più profonde affondano le radici nel passato. Inutile ricordarlo, la Russia di Putin è stato un attore centrale nelle tragiche vicende del Donbass. Cruciale è stato il suo ruolo non solo nel sostegno fisico e materiale alle autoproclamate repubbliche separatiste, ma anche ideologico, nell’identificare nel neonato governo di Kiev una ‘junta’ fascista tramite i più disparati strumenti di propaganda. L’intervento di Mosca, però, non spiega tutto, così come ci dice poco o nulla l’abusata descrizione dell’Ucraina come paese etnicamente e culturalmente diviso tra est e ovest. Non ci dice, ad esempio, perché proprio Donetsk e Lugansk siano divenuti gli epicentri della rivolta o perché, a differenza di altre regioni con forte presenza russofona, proprio nel Donbass il movimento separatista abbia ricevuto inizialmente il più ampio sostegno popolare.
Donbass: libertà e indipendenza
Nel suo studio della regione come terra di confine tra Ucraina e Russia tra il 1870 e il 1990, lo storico Hiroaki Kuromiya conclude che il tratto principale della vita politica del Donbass è caratterizzato dallo ‘spirito di libertà e indipendenza’ [‘Freedom and Terror in the Donbas: A Ukrainian-Russian Borderland, 1870s-1990s’, p.335]. L’industrializzazione della seconda metà del XIX secolo, la costante migrazione – volontaria e forzata – dalle parti più disparate dell’impero prima e dell’Unione Sovietica poi, la particolare durezza del terrore staliniano e il carattere industriale della regione, hanno definito la storia particolare del Donbass e la sua naturale diffidenza nei confronti di Mosca prima e di Kiev poi. Il punto centrale nell’identità regionale è divenuto così non un’autoidentificazione su base etnica o culturale, ma su quella economico-territoriale. L’idea di essere il cuore industriale del paese, sfruttato e mai ricompensato a sufficienza ha favorito, infatti, il costante risentimento verso il centro di potere. Negli anni della disgregazione dell’Unione Sovietica il senso di alienazione da Mosca, più che il sentimento di appartenenza all’Ucraina, aveva contribuito a mobilitare i minatori del Donbass in una serie di scioperi spontanei nel 1989. Non a caso i movimenti politici che lottavano per l’indipendenza dell’Ucraina (come Rukh) non riuscirono ad attecchire veramente nella regione. Al referendum di dicembre 1991 Donetsk e Lugansk votarono a grande maggioranza per l’indipendenza ucraina, ma già a partire dal 1994 i rapporti con Kiev iniziarono a deteriorarsi. Più che la presenza di una consistente minoranza russa, fu l’idea che a un centro di potere che sfruttava la regione (Mosca) se ne fosse sostituito un altro (Kiev) ad avere contribuito al consolidamento elettorale del Partito Comunista negli anni ’90 e alle crescenti domande di indipendenza e autonomia regionale.
Il Partito delle Regioni (o del Donbass)
La specificità del Donbass ed i problemi che l’Ucraina indipendente ha dovuto affrontare – e sta affrontando tuttora – nella costruzione di un’identità nazionale unificante, restituiscono però solo un quadro parziale se non si prende in considerazione il ruolo centrale giocato dal partito delle regioni (PdR) dell’ex presidente Viktor Yanukovich. Nato alla fine degli anni ’90 come un progetto politico del secondo presidente Leonid Kuchma (1994-2004), il partito è divenuto il principale strumento nelle mani dei rappresentanti dell’élite del Donbass in concomitanza con la polarizzazione politica dopo la vittoriosa ‘rivoluzione arancione’ del 2004. Proprio il Donbass, infatti, è diventato la roccaforte politica e il cuore ideologico del partito di Yanukovich. Coltivando il senso di alienazione locale nei confronti di Kiev e del nuovo governo arancione, già durante la presidenza di Viktor Yushenko (2005-2010) il PdR, con l’attivo sostegno dell’élite e degli oligarchi locali, è stato in grado di espandere il proprio potere incontrastato su tutta la regione. Ancor prima di conquistare la presidenza nel 2010, Yanukovich aveva di fatto costituito uno stato nello stato, con il dominio del partito che si estendeva praticamente su tutte le sfere della vita politica, economica e sociale. Questo non ha solo permesso di costituire una solida base per le proprie ambizioni a livello nazionale, ma anche di trasformare definitivamente il partito nell’unico ‘ascensore sociale’ in Donbass. La membership e il voto di sostegno al partito era l’unica assicurazione per il grande così come per il piccolo business, per gli insegnanti così come per i dottori.
Identità regionale
Il controllo autoritario e capillare (nel 2013 il PdR controllava 106 seggi su 124 nel consiglio regionale di Lugansk e 168 su 180 a Donetsk) non si basava, però, solo su clientelismo e coercizione. Un fattore centrale nella monopolizzazione del potere del partito delle regioni è stata infatti la sua abilità di appropriarsi e di incanalare il risentimento verso Kiev tramite l’idealizzazione di una distinta identità regionale. Il vago malcontento sociale, in buona misura causato dalla crisi e deindustrializzazione degli anni ’90 che ha avuto un grande impatto sul carattere socio-economico regionale, è stato riempito da richiami alla specifica identità locale basata su aspetti storici, linguistici e culturali. Così, in contrapposizione alle politiche di ucrainizzazione del ‘governo arancione’ culminate con l’infausta decisione di proclamare Stepan Bandera eroe nazionale nel 2010, a Donetsk e Lugansk il partito delle regioni enfatizzava il carattere distintivo del Donbass. Il passato glorioso come centro industriale dell’impero, la centralità della lingua russa e il richiamo alla federalizzazione del paese divennero tutti elementi del ‘patriottismo regionale’ funzionale al mantenimento del feudo di Yanukovich, in contrapposizione a quella che era definita come la ‘banderizzazione dell’Ucraina’. Tra il 2004 e il 2010, ad esempio, il consiglio regionale di Lugansk inaugurò il programma culturale ‘Patriot Luganshini’ (patriota di Lugansk), mentre a Donetsk nascevano una serie di organizzazioni di chiara matrice separatista come ‘Donetskaja Respublica’ (poi dichiarata illegale) che riprendeva storia e simboli della breve esperienza indipendentista della Repubblica socialista sovietica di Donetsk-Krivoj Rog nel 1918. Molti dei primi leader dei separatisti nel 2014, come Andrei Purgin, Pavel Gubarev e altri, venivano proprio da questi ambienti.
Donbass nel caos
Il resto è storia recente. Il cambio di potere e la fuga di Yanukovich hanno avuto un doppio effetto. Da una parte si è creato un vuoto di potere, seppur temporaneo, a Kiev. Dall’altra, il potere clientelare del PdR in Donbass si è rapidamente disgregato in diverse fazioni intorno alle figure più influenti come gli oligarchi Rinat Akhmetov, Aleksandr Efremov e altri. Nel caos generale, il diretto o tacito sostegno di quest’ultimi infatti ha permesso di emergere a quei personaggi e organizzazioni che erano già presenti nel sottobosco del Donbass e che facevano leva su quei sentimenti di identità regionale precedentemente coltivati dalla politica isolazionista del partito delle regioni. Tra marzo e aprile 2014 circa il 61% degli abitanti di Lugansk e 70% di quelli di Donetsk vedevano Maidan come un colpo di stato orchestrato dall’occidente, mentre la media per le altre regioni del sud-est si attestava intorno al 38%.
Altro fattore determinante è stato di certo il sostegno o la mancata reazione delle forze dell’ordine locali, anch’esse legate a doppio filo ai baroni e al sistema di potere creato da Yanukovich. Già a gennaio 2014 quando a Kiev le proteste non si erano ancora trasformate in una vera e propria rivolta, infatti, a Donetsk e Lugansk erano stati formati gruppi di auto-difesa di Cosacchi e attivisti sotto l’egida e finanziamento del partito delle regioni. Ad essi, dopo la fuga di Yanukovich, si sono uniti anche molti membri del Berkut (polizia antisommossa) che avevano passato i mesi di Maidan a Kiev, dall’altra parte della barricata. Un esempio in questo senso è la figura di Alexander Khodakovskij. Ex comandante dell’unita speciale Alpha dei Servizi di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) che, dopo aver passato i mesi di Maidan a coordinare le attività delle forze dell’ordine, è divenuto comandante del battaglione separatista Vostok nella guerra in Donbass.
Nelle caotiche settimana dell’inizio della primavera di quattro anni fa il delicato passaggio di potere a Kiev si è scontrato così con l’improvviso vuoto di potere nel Donbass lasciato dal rapido collasso del partito delle regioni che – negli ultimi 10 anni – era stato capace non solo di costituire un vero e proprio stato nello stato, ma anche di manipolare per propri scopi politici il distintivo sentimento di appartenenza regionale. Questo non deve sminuire il ruolo indiretto e diretto (si ricordi la parabola del comandante russo Strelkov) di Mosca nelle tragiche vicende che hanno caratterizzato la storia recente del Donbass, ma ci può dire qualcosa, forse, su come e sul perché tutto questo sia stato possibile. Elementi che anche il governo di Kiev dovrebbe tenere a mente se mai questa guerra inutile dovesse vedere la fine.
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Foto: Maxim Dondyuk