Non ha il fascino multietnico e orientale di Sarajevo, né la imperiale eleganza di Budapest. Non è maestosa ed evocativa come Praga, e non è giovanile come Belgrado. Bucarest non è niente di tutto questo. Bucarest è caotica; il suo traffico rievoca megalopoli indiane o sudamericane, con quella spolverata di latinità, di cui i romeni si fan vanto, che sa di sud Italia. Bucarest è sporca, architettonicamente incoerente, disordinata e disorientante. Bucarest è kitsch: i led sfavillanti delle insegne pubblicitarie sovrastano intere piazze, e di notte le trasformano in un caleidoscopio di luci simile a quello di malinconici luna park di provincia. Se il mondo fosse dominato da chi stila le classifiche delle città con la migliore qualità della vita, Bucarest non avrebbe motivo di esistere, andrebbe rasa al suolo, sostituita da tante piccole Bolzano danubiane. Più pulite, più ordinate, più rassicuranti. Fortunatamente, la vita ha più sfumature di quelle pensate da chi stila le classifiche.
Bucarest ha un’anima, un cuore che pulsa, una storia tangibile, a portata di mano e di occhi. E’ complessa, dicotomica, ambigua come un essere umano. E’ espressione della grande contraddizione del suo popolo, che aspira all’Occidente, ma che è profondamente impregnato d’Oriente. Piaţa Revoluţiei, lì dove l’ultimo grande satrapo d’Europa ha iniziato la sua rovinosa caduta, è il trionfo dell’architettura occidentale in tutte le sue sfaccettature. L’ateneo romeno, con il suo stile neoclassico e le sue venature francesizzanti richiama ambienti parigini; il ministero degli Interni vecchia sede del comitato centrale del partito comunista, fronteggia il palazzo reale degli Hohenzollern, quasi a voler mettere quotidianamente a confronto i due grandi poteri del Novecento romeno. Dall’altro lato della piazza, l’Athenée Palace, oggi più volgarmente Hilton, negli anni ’40 leggendaria alcova noir di spie internazionali, faccendieri e amanti clandestini.
Calea Victoriei, l’arteria principe, che taglia in due il centro, vero fulcro della città, tanto da dare il titolo a un famoso romanzo di Cezar Petrescu. Al numero 36 si trova l’hotel Capşa, nato nella seconda metà dell’Ottocento come pasticceria, la prima a portare il gelato in Romania. Tra XIX e XX secolo fu ritrovo di artisti e scrittori; Tudor Arghezi lo chiamava addirittura “l’Accademia”. Al suo interno si respira l’atmosfera del primo Novecento, epoca in cui Bucarest si era guadagnata l’appellativo di piccola Parigi e Parigi dei Balcani; anni rampanti, di fiducia, crescita, ottimismo. La città conserva sparuti rimasugli della sua epoca d’oro, che porta orgogliosamente come cicatrici che ricordano un passato glorioso: case e palazzi in stile liberty, i meravigliosi parchi monumentali, lampioni finemente decorati, che emergono come ciuffi d’erba in un deserto di grigiume socialista.
Pagando, è possibile fare un giro panoramico della Bucarest comunista a bordo di un bus. Lo scarno tour culmina nella Casa del Popolo, oggi il Parlamento, il più noto e il più inflazionato dei “monumenti” di Bucarest, sul quale fiumi di inchiostro son stati versati. Tuttavia, lo spirito antico della città forse non si trova tra le mura del sogno di Ceauşescu, che nella costruzione del palazzo gettò quell’ultimo barlume di ragione rimastagli. Alle spalle dell’immensa massa di marmo bianco, si entra nel quartiere di Cotroceni. Qui sopravvive imperterrita qualche casa del periodo interbellico, e soprattutto il grande palazzo, oggi sede della presidenza della Repubblica, realizzato dall’architetto francese Paul Gottereau. Come tutta Bucarest, anche il palazzo di Cotroceni ha vissuto sulla sua pelle tutte le drammatiche evoluzioni della storia romena: nato come casa nobiliare, passata poi alla famiglia reale, in epoca comunista si trasformò nel palazzo dei Pionieri, appellativo con cui venivano chiamati i bambini inquadrati nelle organizzazioni di partito.
Bucarest è perdizione e misticismo. A Lipşcani, il centro storico pedonale, tra pub e centri massaggi che poco hanno a che fare con la fisiatria, si staglia un piccolo gioiello, la chiesa di Stavropoleos, emblema più caratteristico dello stile architettonico neoromeno. Un luogo di esotismo bizantino al centro di una capitale un po’ balcanica, un po’ turca, un po’ occidentale. Stavropoleos è la Romania ortodossa, credente, di quella fede che rasenta la superstizione. Bucarest è i suoi blocuri e le sue periferie. Enormi vialoni delimitati da file interminabili di condomini tutti uguali, così come gli operai della Romania comunista. Anche lì, però, c’era sempre qualcuno un po’ più uguale degli altri. Bucarest è onirica così come la dipinge Mircea Cartarescu, è introversa e tormentata come il giovane Eliade che vi ambienta i suoi romanzi giovanili. Bucarest è tutto e niente. Non basta un’esistenza per apprezzarla totalmente, ce ne vorrebbero quattro o cinque diverse, ognuna per ogni singola sfaccettatura. E’ sofferenza, povertà e ricchezza furbesca. Bucarest è il porumb la gratar il sabato pomeriggio nel grande parco Herastrau. Bucarest è immaginazione; d’altronde, con un piccolo sforzo immaginativo, al centro di Piaţa Universităţii, lì dove i giovani romeni lottarono per un futuro migliore, alla confluenza di quattro grandi interminabili boulevard, ci si può sentire un po’ al centro della storia.
foto: consilierturism.ro