Il 2017 romeno ha avuto un andamento circolare. Di fatto, si è aperto e si è chiuso in modo speculare: in piazza, a protestare. Con le ultime manifestazioni di novembre e dicembre è calato il sipario su un anno iniziato con le migliaia di persone radunate in Piața Victoriei contro le modifiche al codice penale varate con decreto d’urgenza dal governo socialista allora guidato da Sorin Grindeanu. Era l’inizio di febbraio. Nel frattempo, l’esecutivo Grindeanu è caduto, vittima dello scontro personale tra il primo ministro e Liviu Dragnea. Il nuovo premier, Mihai Tudose, che a luglio proclamava apertamente la sua amicizia con il leader maximo socialista, oggi non perde occasione per ribadire la sua indipendenza di pensiero e la sua totale libertà dal guinzaglio del presidente del partito.
Cambiano gli esecutivi, cambiano i ministri, ma il sogno di Dragnea di ammorbidire la legislazione anti-corruzione non muore mai. Dopo essere stato costretto a ritirare l’ordinanza di febbraio, in seguito alle veementi proteste della gente, il partito socialista ha presentato in autunno dei nuovi progetti di legge che mirano a porre la magistratura romena sotto il diretto controllo del dicastero della Giustizia. La popolazione è tornata nuovamente in piazza a protestare, e per il momento la situazione sembra in stand-by. Il 2017, anno apparentemente transitorio, privo di passaggi elettorali importanti, ha detto molto sul livello di alfabetizzazione politica dei romeni, e sul modo in cui la battaglia politica viene vissuta tra i Carpazi e il Danubio. Quel che emerge, è un quadro agrodolce.
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Elezioni svalutate
Il modo in cui i cittadini agiscono politicamente è figlio della storia del paese, non solo del passato comunista. I romeni si infiammano quando si tratta di difendere diritti che considerano acquisiti e inalienabili, ma non riescono a immaginare una battaglia politica condotta attraverso il mezzo elettorale. Quel che è accaduto nel 2017 lo dimostra. A febbraio i manifestanti erano svariate migliaia in tutte le città del paese; nella capitale addirittura 150.000 in una sola serata. Tuttavia, solo 50 giorni prima, alle elezioni parlamentari del dicembre 2016, alle urne si era recato solo il 40% degli aventi diritto, che aveva conferito al partito socialista una maggioranza schiacciante. Vien da chiedersi allora come sia possibile un cambio di rotta così repentino in soli 50 giorni. E’ evidente che la folla protestante pullulasse di persone che solo un mese prima aveva votato Dragnea e la sua cricca, ma questo non basta a spiegare il fenomeno.
Proviamo a guardare indietro allora. Ci accorgeremmo che nessun grande crocevia della storia romena è mai stato deciso da una tornata elettorale. Dopo la Seconda Guerra Mondiale il regime comunista ha spogliato il voto di qualsivoglia importanza. E prima? La Romania interbellica, che ai romeni piace dipingere come idilliaca, era una democrazia mascherata, in cui tutte le elezioni erano vinte dal partito al governo al momento del voto. Chi organizzava materialmente le operazioni elettorali, tramite pratiche più o meno ortodosse, riusciva sempre ad ottenere la maggioranza. In più, in un paese con un tasso di analfabetismo estremamente elevato, era facile per i pochi grandi patroni politici ottenere voti tramite elargizione di prebende. Pratica ancora oggi molto diffusa nel contesto rurale romeno, quello da cui il partito socialista riceve più consensi.
Tutto ciò ha fatto sì che i romeni abbiano dovuto conquistarsi i loro diritti in modo più o meno plateale e violento: la rivoluzione del 1989 ne è un esempio palese. Gli eventi del 1990 poi ricordano per certi versi quelli del 2017: le elezioni presidenziali di maggio vennero stravinte da Iliescu, con più dell’80% dei consensi, scatenando le proteste veementi degli studenti, che nel giugno successivo occuparono Piața Universității. Nel 2014, per garantire la vittoria di Klaus Iohannis alle elezioni presidenziali, fu fondamentale il voto dei romeni all’estero.
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Un paese diviso
Da questo quadro sommariamente delineato emergono degli elementi chiari. La Romania è ancora un paese spaccato tra un mondo rurale ancorato a vecchie pratiche clientelari e un contesto urbano più giovane e dinamico, che mira al cambiamento. Quest’ultimo tuttavia che non riesce a far sentire la sua voce quando si tratta di andare a votare, abbandonandosi spesso all’astensione. E questo per i motivi di cui sopra; i romeni non vedono le elezioni come utile strumento di lotta politica. Ad esso preferiscono la strada, la protesta, lo scontro frontale con l’ordine costituito. Se le stesse energie messe in campo per mobilitare la protesta di febbraio fossero state messe in campo durante la campagna elettorale, forse l’esito sarebbe stato leggermente diverso. Bisogna chiedersi se nel 2018, un paese membro dell’UE che mira a standard occidentali, possa ancora permettersi di leggere la politica in questo modo.
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