Donald Trump non ne ha mai fatto mistero. Già da candidato alla Casa Bianca aveva giurato guerra al regime di Teheran. E ora, da commander-in-chief, sembra voler tenere fede a quella promessa. Domenica scorsa, ha inviato il segretario di Stato, Rex Tillerson, prima a Riyad, dai fedeli alleati sauditi, e poi a Doha, in Qatar. Con un obiettivo ben preciso: isolare l’Iran e limitarne l’influenza crescente in tutta la regione mediorientale.
La missione di Tillerson in Medioriente
A Riyad, Tillerson ha preso parte ad un meeting economico, organizzato per rinsaldare la cooperazione tra Arabia Saudita e Iraq. Gli Usa vorrebbero sottrarre Baghdad all’influenza crescente dell’Iran, promuovendo un suo avvicinamento alla monarchia dei Salman. Anche per questo, il segretario di Stato statunitense ha chiesto il ritiro dall’Iraq delle milizie sciite legate a Teheran. Il loro apporto nella guerra all’Isis, da un lato è decisivo per recuperare il controllo del territorio, dall’altro, per Washington, minaccia pericolosamente gli equilibri regionali.
Tillerson è poi volato dall’emiro del Qatar, Tamim Bin Hamad Al Thani. Da mesi gli Stati Uniti tentano di mediare nella crisi scoppiata con Arabia Saudita, Bahrain, Egitto ed Emirati Arabi Uniti. Al momento non hanno ancora ottenuto alcun risultato. Il fronte anti-Doha aveva interrotto lo scorso 5 giugni le relazioni commerciali e diplomatiche con i Qatar, accusato di sostenere il terrorismo e di essere troppo vicino all’Iran. «Nessuno può permettersi che questa crisi continui», ha dichiarato Tillerson. «L’Iran è l’unico che ne sta traendo vantaggio, accrescendo così la sua importanza».
La guerra di Trump a Teheran
Le recenti mosse di Trump sono solo le ultime di una lunga serie. Già in campagna elettorale il tycoon aveva messo in discussione l’accordo sul nucleare, siglato nel 2015 da Iran, Stati Uniti, Cina, Russia, Germania, Gran Bretagna e Francia. Più volte Trump lo ha definito “la peggiore intesa della storia” e ha tentato di minarne la credibilità a suon di tweet e dichiarazioni pubbliche. Le reazioni dei partner – contrari ad una sua rinegoziazione – non si sono mai fatte attendere.
Così è stato anche due settimane fa, quando Trump si è rifiutato di certificare l’intesa. Ogni 90 giorni, infatti, la Casa Bianca deve riferire al Congresso e confermare che l’Iran rispetta l’accordo e che quest’ultimo continua a essere negli interessi di Washington. «Non si tratta di un accordo bilaterale tra Usa e Iran che può essere modificato unilateralmente», ha dichiarato il presidente iraniano Hassan Rohani.
Al momento rimane comunque in vigore, nonostante i continui tentativi statunitensi di boicottarlo. In primis la minaccia di nuove sanzioni contro i Pasdaran iraniani, il potentissimo esercito delle Guardie della Rivoluzione, che Trump ha incluso nella lista delle organizzazioni terroristiche.
L’Iran, inoltre, era già stato inserito dal presidente nel Travel Ban, il provvedimento che vietava l’ingresso negli Usa ai cittadini provenienti da otto paesi: Libia, Siria, Yemen, Somalia, Corea del Nord, Ciad, Venezuela e per l’appunto Iran. Scaduto in questi giorni, il Travel Ban, è stato sostituito da un nuovo ordine esecutivo che impone controlli più rigidi per l’ingresso sul suolo statunitense per i cittadini di 11 Stati, tra cui ancora l’Iran.
La crociata di Trump contro il Paese degli ayatollah rischia però di avere delle importanti ripercussioni nella lotta all’Isis. Se da un lato Washington continua ad accusare Teheran di essere il principale sponsor del terrorismo, dall’altro ottiene importanti vittorie in Siria e Iraq proprio grazie al suo contributo. Una contraddizione che la Casa Bianca dovrà presto risolvere.
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Foto: Riyadh – Rex Tillerson al meeting economico tra Arabia Saudita e Iraq (da Twitter).