Le elezioni parlamentari in Repubblica Ceca hanno visto la vittoria di Andrej Babis, già favorito nei pronostici malgrado i molti scandali che hanno coinvolto la sua persona, il cui partito Azione per i cittadini insoddisfatti (ANO) ha ottenuto il 29,6% dei voti affermandosi come partito di maggioranza relativa. Le urne hanno confermato la frammentazione del panorama politico cèco: con l’11,3% il Partito democratico civico (ODS), conservatore ed euroscettico, si afferma come seconda forza del paese, mentre il Partito Pirata raggiunge un inatteso 10,7%. Altra sorpresa è l’affermazione di Libertà e democrazia diretta (SPD), partito nazionalista e xenofobo, che ottiene il 10,6% dei voti. Pesantemente sconfitto il partito socialista (CSSD) alla guida del governo uscente che ottiene appena il 7% dei consensi segnando il peggior risultato si sempre.
Andrej Babiš, il miliardario
Andrej Babiš è tra i più ricchi e influenti tycoons del paese, proprietario del colosso Agrofert (una holding con interessi che spaziano dal settore chimico a quello dei media) vanta un patrimonio di quattro miliardi di dollari La sua ascesa politica comincia nel 2012, anno in cui fonda il movimento ANO, Azione per i cittadini insoddisfatti, con cui si propone di ripulire il paese dalla vecchia e corrotta classe dirigente. Appena un anno dopo, alle elezioni parlamentari del 2013, ANO ottiene il 18,7% dei voti diventando la seconda forza politica nazionale. Un risultato che proietta Babiš fino alla poltrona di ministro delle Finanze. Definito, con evidente gioco di parole, dal magazine americano Politico come “the bohemian Trump” e apostrofato da Foreign Policy come “Babisconi”, il businessman boemo si è trovato al centro di alcuni scandali e si è visto accusato di evasione fiscale. Ma questo non ha preoccupato i cittadini cèchi, nemmeno quando Babiš ha affermato di voler “governare il paese come si governa un’azienda”. E vale la pena ricordare che la sua azienda è ora sotto inchiesta da parte dell’OLAF, ufficio europeo che indaga sulle frodi commesse attraverso l’allocazione illecita di fondi europei. Il cavallo di battaglia di Babiš è stato la lotta alla disoccupazione, un tema di assoluta rilevanza ma piuttosto secondario in un paese che ha un tasso di disoccupazione del 3%. Babiš sa però che l’importante è agitare gli animi, seminare paure e indicare soluzioni a problemi che vengono creati ad arte.
Babiš, quanto è vecchio l’uomo nuovo
Babiš fa parte di quella schiatta di “uomini nuovi” che hanno penetrato la crisi politica generatasi dall’ottantanove europeo, facendo emergere quelle pulsioni reazionarie e radicali che covavano sotto l’apparente entusiasmo per le magnifiche sorti cui l’Europa sembrava destinata dopo la caduta del Muro di Berlino. Le incertezze dell’epoca, i timori per la globalizzazione economica, la fine delle ideologie e la crisi dei partiti tradizionali hanno aperto la strada a una nuova specie di politici, uomini d’affari dal piglio autoritario, capaci di riempire il vuoto politico con retoriche demagogiche attraverso un sapiente uso dei mezzi di comunicazione. Nei paesi dell’Europa centro-orientale questo processo si è sommato alla difficile transizione verso l’economia di mercato e al nazionalismo che ha connotato, in varia misura, le società post-comuniste. A quasi trent’anni di distanza dalla caduta del Muro, le paure dell’epoca agitano ancora i sonni delle società dell’Europa centro-orientale: il senso di disorientamento, il timore di perdere la propria identità e sovranità, la fragilità di un sistema economico duramente colpito dalla crisi del 2009, hanno accentuato sentimenti reazionari che individuano nell’altrove e nell’altro (l’Unione Europea, i migranti, etc..) le cause di problemi endogeni. L’homo novus, dalla retorica pugnace e violenta, viene visto come l’estrema difesa verso questo nemico esterno. In tal senso questo “uomo nuovo” è però molto ‘vecchio’: già negli anni Venti c’era chi, nel vecchio continente, attribuiva agli “altri” – minoranze religiose o etniche, gruppi politici – le ragioni delle sofferenze del popolo, e sappiamo come è andata.
Okamura, il gapponese che odia gli stranieri
Non sorprende dunque che in Repubblica Ceca abbia trionfato, accanto al populismo conservatore di Babiš, la xenofobia patriottarda del partito Libertà e democrazia diretta (SPD) guidato da Tomio Okamura. Quello che sorprende è che sia proprio uno straniero, il giapponese Okamura, figlio di coppia mista, a incarnare le retoriche del rifiuto dell’immigrazione, dell’identitarismo e del nazionalismo boemo. Al grido di “stiamo vivendo sotto la dittatura dell’UE“, Okamura ha condotto una campagna elettorale aggressiva, sfruttando la propria notorietà come uomo d’affari e conduttore televisivo. “Quella islamica non è una cultura, è solo un’ideologia criminale” è una delle sue esternazioni più citate in un paese dove i musulmani non li hanno mai visti: dei 1600 rifugiati siriani che il paese dovrebbe accogliere secondo le quote promosse dall’UE, ne sono arrivati soltanto 12. I musulmani, in tutto il paese, rappresentano lo 0,1% della popolazione (circa 3500 persone). Gli strali di Okamura non hanno risparmiato la minoranza rom: “Andrebbero deportati in India” ha dichiarato.
Okamura ha saputo raccogliere quel malessere che, fin dagli anni Novanta, si coagulava attorno ai molti movimenti di estrema destra. Il superamento di quella frammentazione spiega il risultato di Okamura mostrando come il fenomeno oggi, con oltre il 10% dei consensi, non possa più essere ignorato.
I pirati all’arrembaggio
A intercettare il malcontento di coloro che non si riconoscevano in Babiš e Okamura è stato il Partito Pirata le cui battaglie contro la corruzione politica e a favore della democrazia diretta e dei diritti digitali sono tuttavia venate da accenti giustizialisti e populisti che ne fanno un partito utile a raccogliere il malcontento ma incapace di sviluppare una visione politica a tutto a tondo. Dopo che il Partito democratico civico (ODS) ha dichiarato la propria indisponibilità a un’alleanza di governo con ANO, i Pirati potrebbero decidere andare all’arrembaggio del governo anche se questo significa allearsi con la loro nemesi, il corrottissimo Babiš. Più probabile un’alleanza tra Babiš e Okamura il cui numero di seggi non sarebbe tuttavia sufficiente ad avere una maggioranza in Parlamento. Servirà quindi l’aiuto di un terzo partito.
In Repubblica Ceca la realtà sembra dunque aver superato la satira, dalle urne è infatti uscito vincitore un populismo borghese ed egoisticamente arroccato su posizioni di rendita, un male minore che è diventato maggiorenne e ha acquisito diritto di voto consegnando il paese a un miliardario che promette di fare gli interessi dei più poveri e a un giapponese che odia gli stranieri: paradossi di un’Europa che ha perso prospettiva politica e manca di uomini con una visione del futuro.