Kirkuk è una città fantasma. I negozi chiusi, le finestre sbarrate. Almeno duemila persone se ne sono andate dopo che la città è stata conquistata dalle forze armate irachene fedeli al governo di Baghdad. A fuggire non sono i combattenti del Califfato islamico, sono curdi diretti verso la vicina regione autonoma del Kurdistan. Un lungo esodo di auto, in coda verso l’uscita della città, passa sotto l’enorme statua di un peshmerga, E proprio loro, i peshmerga, sono accusati dalla popolazione di non aver difeso la città dall’arrivo dell’esercito iracheno. Un esercito che, da queste parti, è visto come nemico benché rappresenti lo stato di cui anche la regione autonoma del Kurdistan è parte.
I peshmerga controllavano Kirkuk fin dal 2014, quando la conquistarono alle milizie dell’ISIS. La popolazione, a maggioranza curda, salutò il loro arrivo come una liberazione. In questi anni la città è stata fondamentale per l’economia curda: gli importanti giacimenti petroliferi di Bai Assan e Avana hanno consentito ai peshmerga di finanziare la guerra contro i jihadisti. L’azione dell’esercito iracheno mira oggi alla riconquista di quei giacimenti. Una riconquista fattasi ancora più urgente dopo che la regione autonoma del Kurdistan ha tenuto il 25 settembre scorso un referendum per l’indipendenza. Benché non compresa nei confini della regione autonoma, Kirkuk è stata rivendicata dal governo locale curdo guidato da Massoud Barzani. Kirkuk è importante per entrambe le parti e ora che la guerra contro l’ISIS volge al termine occorre ristabilire gli equilibri di forza all’interno del paese.
All’arrivo dei soldati iracheni le forze curde si sono trovate divise tra coloro che sono fedeli al Partito democratico del Kurdistan (PDK) di Barzani, e quelle che obbediscono all’Unione patriottica del Kurdistan (PUK) del defunto presidente Talabani. Da quanto emerso, i combattenti del PUK si sarebbero ritirati dalla città mentre quelli del PDK avrebbero opposto una blanda resistenza sfociata in scontri a fuoco che hanno tuttavia causato un numero imprecisato di morti. Alla fine i soldati del PDK hanno lasciato campo aperto alle forze armate irachene mantenendo però una posizione negoziale con il governo di Baghdad per stabilire a chi spetti il controllo della città. Negoziati da cui Barzani spera di ottenere il diritto di nominare il prossimo governatore di Kirkuk. Una volta entrati in città, i soldati dell’esercito iracheno hanno ammainato le bandiere curde issando quelle nazionali irachene.
La vicenda della “riconquista” di Kirkuk mostra infatti quante “guerre nella guerra” attraversino la regione ora che il nemico principale, l’ISIS, sembra avere le ore contate. E la questione curda è certamente quella che scuote di più i fragili equilibri della regione.
Il referendum del 25 settembre scorso, cui hanno partecipato 3,3 milioni di persone, ha confermato la volontà dei curdi di dotarsi di un proprio stato, obiettivo inseguito da almeno un secolo e che oggi sembra essere più che mai realizzabile. Benché di natura consultiva, il significato politico del referendum è di estrema rilevanza tanto che gli Stati Uniti, storici alleati di Barzani, hanno criticato fortemente il voto e le forze armate tedesche, che dal 2011 addestrano i peshmerga, hanno abbandonato la regione. I paesi dell’area mediorientale hanno poi espresso un biasimo unanime. La Turchia e l’Iran ospitano minoranze curde e temono ripercussioni. In particolare la Turchia, che si trova a fare i conti con una strisciante guerra civile nell’est del paese, dove il PKK curdo ha ripreso i combattimenti dopo aver rotto, nel 2015, il cessate il fuoco inaugurato due anni prima, teme la nascita di uno stato curdo per le ricadute irredentiste che questo avrebbe nella regione. Una regione dove esiste un’altra entità politica curda, quel Rojava che i combattenti dell’YPG hanno ricavato dal vuoto politico seguito alla guerra in Siria e i cui destini sono più che mai incerti dopo che Assad è uscito vincitore dalla guerra in Siria.
Il referendum per l’indipendenza tenutosi nel Kurdistan iracheno, presto tacciato di incostituzionalità da Baghdad, riaccende il mai sopito fuoco della causa curda, storico elemento di destabilizzazione della regione cui mai, nei tavoli della pace, si è voluto dare soluzione. Eppure, come i fatti di Kirkuk dimostrano, i rischi di nuovi conflitti sono evidenti: ora che la parabola del Califfato volge al termine, i vincitori reclamano ognuno la propria parte, e dove mancherà la diplomazia saranno i kalashnikov a decidere.