di Salvatore Greco
I borbottii dei membri di un’alleanza che stava venendo meno a se stessa, svelando sempre più sfacciatamente di essere un sistema di controllo unidirezionale, furono interpretati dall’Unione Sovietica di allora come capricci da rimbrottare con ulteriori manifestazioni di potenza e controllo, dopotutto la guerra fredda era nel suo pieno corso e non si sarebbe permesso a un altro Dubček qualsiasi di minare incautamente pezzi sulla scacchiera che avrebbero dato spazio alle manovre americane. Fu così che nel 1980 Mosca decise che valeva la pena invadere l’Afghanistan e ospitare un’Olimpiade, simboli identici e contrari di una posizione nel mondo che non si intendeva certo abbandonare.
La storia di quell’invasione è oggi tristemente nota, con l’Afghanistan destinato a diventare per i sovietici quel pantano di morte che era stato il Vietnam per gli statunitensi, e altrettanto nota è la sorte di quell’Olimpiade, boicottata da mezzo occidente proprio per protesta nei confronti dell’invasione e segnata da un trionfo di Paesi socialisti tanto, per certi versi, scontato quanto, alla luce del presente, ironicamente beffardo. Beffardo anche perché è davvero difficile immaginare oggi come allora un ipotetico sentimento collettivo di partecipazione alle sorti del mondo socialista da parte degli atleti oltrecortina: se un sentire comune del genere era davvero mai esistito, di sicuro era già sepolto da tempo. E tolti i sempre fieri alfieri della realpolitik, il rumoroso brusio di dissenso era diffuso e sarebbe esploso con il gesto più eclatante della XXII Olimpiade, quello del saltatore con l’asta polacco Władysław Kozakiewicz.
La presunta neutralità dei Giochi era stata già più volte violata nella storia a partire dai Giochi del 1936, sfoggio del Terzo Reich, e in direzione opposta nel 1968 contro il pugno chiuso del potere nero sfoggiato da John Carlos e Tommie Smith. Ma nulla a che vedere con il gesto di Kozakiewicz, personale e collettivo, emotivo e politico allo stesso tempo. Un moto d’istinto che racconta la Storia.
Władysław Kozakiewicz è nato nel giorno dell’Immacolata del 1953 in un villaggio poco distante da Vilinus, allora fresca capitale della neonata Repubblica Socialista Sovietica di Lituania ma città storicamente e culturalmente legata alle sorti della Polonia. È stato un saltatore con l’asta di livello assoluto, già a vent’anni campione nazionale due volte e detentore del record nazionale polacco fatto segnare nel 1973 saltando un’asticella piazzata a 5,32 metri d’altezza. Nel 1974 si presenta ai campionati europei di Roma dove raggiunge la medaglia d’argento arrivando dietro al solo Vladimir Kishkun e nel 1977 e nel 1979 vince due volte la medaglia d’oro ai campionati europei indoor rispettivamente di San Sebastian e Vienna. Che a Mosca nel 1980 avrebbe potuto ambire a una medaglia olimpica non era insomma un mistero per gli addetti ai lavori.
Ed è così che difatto il 30 luglio del 1980 sulle piste dello stadio Lenin –oggi Lužniki- si compie un’impresa sportiva che si avvicina alla leggenda. Kozakiewicz raggiunge agevolmente la finale e la inizia con alcuni salti “di riscaldamento” prima di piazzare l’asticella a 5,50 metri ed eguagliare il record olimpico. La progressione dei salti è notevole e la sfida per le medaglie lo porta a competere con il connazionale –e campione olimpico in carica- Tadeusz Ślusarski e con il beniamino di casa Konstantin Volkov. Kozakiewicz continua ad alzare il livello, salta in progressione fino ai 5,75 m senza commettere alcun errore nonostante il pubblico di casa sostenga Volkov e disturbi con fischi e boati i due polacchi. Ślusarski si ferma ai 5,65 e così anche il giovane siberiano che fallisce i tentativi a 5,70 m. Kozakiewicz invece supera i 5,78 m e conquista la medaglia d’oro e il record del mondo. Gli serve un secondo tentativo dopo il fallimento del primo, ma dopo il tuffo sul materasso e l’asticella che non trema la gioia è immensa, lo stadio Lenin è ammutolito e la frustrazione di Kozakiewicz contro un pubblico selvaggiamente ostile si esprime con il più iconico dei gesti di rivalsa, un gesto dell’ombrello che vale la storia.
Oggi Władysław Kozakiewicz è un pacato e baffuto signore, munito di passaporto tedesco quanto la sua pensione e quanto i titoli nazionali vinti nel 1986 e nel 1987 quando le velleità di gare internazionali erano perlopiù piegate dall’età avanzante e dalle parti della vecchia Germania Ovest poteva ancora dire qualcosa ai giovani saltatori di Bonn e dintorni. La vetta olimpica moscovita è rimasta quindi l’unica della sua carriera, un picco esplosivo sancito da un insulto al pubblico che sapeva di frustrazione ma anche di liberazione da un’arroganza personale e sportiva ma anche storica e atavica. Che il gesto non avesse una valenza esclusivamente personale fu presto chiaro: le immagini del braccio fieramente piegato verso le tribune fecero il giro del mondo meno che in URSS e in Polonia e l’ambasciatore sovietico a Varsavia chiese ufficialmente la revoca della medaglia d’oro per insulti al popolo russo. Una richiesta rispedita al mittente con la più bella delle bugie ufficiali mai usate da un governo per evitare un incidente diplomatico: fu dichiarato che il gesto di Kozakiewicz era stato dovuto a uno spasmo muscolare seguito allo sforzo fisico sotenuto.
La tentazione di rendere esemplari e profetici gesti personali e istintivi è un rischio che corrono storiografi affrettati e giornalisti in cerca di simboli, di certo Kozakiewicz non ha aperto le strade a Solidarność né tantomeno ha espresso un giudizio sul socialismo reale e sulle politiche brežneviane, ma che in quel gesto ci fosse oltre a un’antipatia sportiva storica e alla foga del momento contro un pubblico arrogante e maleducato anche uno sfogo verso un rapporto politico opprimente e umiliante, quello molti polacchi l’hanno visto e continuano a vederlo. E di lì a poco, un’altra miccia sarebbe scoppiata. Di come poi sarebbe finita è un’altra storia, di cui per altro il cittadino tedesco Władysław Kozakiewicz si è chiamato fuori.