Giunti alla fine di questa sommaria rassegna sulla rivoluzione romena, il lettore probabilmente si aspetta un resoconto degli ultimi giorni di vita di Ceauşescu e della moglie Elena, la loro fuga, la cattura, la morte in una caserma di Târgovişte. Concentrarsi eccessivamente sui fatti contingenti e sulle singole personalità rischia però di offuscare le vere trame che si celarono dietro i fatti di dicembre; trame che possono riemergere, seppur in modo frammentario, solo con uno sguardo retrospettivo di lungo raggio. Pertanto, per chi fosse interessato a quel che accadde a Bucarest tra 22 e 25 dicembre, si rimanda a un articolo che pubblicammo qualche tempo fa.
L’ascesa di Iliescu
Qui, al contrario, ci immergiamo nella Romania della primavera-estate del 1990. A maggio si sono tenute le prime elezioni libere della nuova Romania democratica il cui esito fu, per molti osservatori occidentali, sorprendente: fu Ion Iliescu a stravincere, con più dell’80% dei consensi, contro il liberale Câmpeanu e il nazional-contadino Raţiu. Il risultato delle consultazioni è la prima chiave di volta per interpretare la rivoluzione romena del 1989 con cognizione di causa. Chi era Ion Iliescu? Se il lettore interessato alla storia della Romania decidesse di guardare filmati ufficiali d’epoca comunista, noterebbe senza troppe difficoltà come in molti di questi video accanto a Ceauşescu e alla moglie compaia, in disparte ma non troppo, proprio Ion Iliescu. Iliescu era stato, e probabilmente era ancora in quel maggio 1990, un convinto comunista. Leader dell’associazione giovanile del partito, membro del comitato centrale già dagli anni ’60, questi faceva a buon diritto parte della nomenclatura. Ceauşescu tuttavia non nutriva un’eccessiva fiducia in lui, avendo colto con ogni probabilità la sua sfrenata ambizione politica. Per questo lo mise ai margini del partito, inviandolo in periferia a guidare le istituzioni locali, e facendolo sorvegliare giorno e notte da agenti della Securitate. Non sorprende pertanto vedere proprio Iliescu, in quel fatidico dicembre ’89, prendere in mano le redini della rivoluzione, presentandosi come il leader del “movimento popolare” che aveva abbattuto il feroce dittatore.
Dopo la rivoluzione, Iliescu non negò mai il suo passato comunista, né il fatto di essere un convinto sostenitore di molti aspetti del comunismo, preferendo però auto-definirsi socialista per spaventare il meno possibile l’elettorato. Il suo movimento, il Fronte della Salvezza Nazionale, raccoglieva tra le sue fila molti ex comunisti messi ai margini da Ceauşescu, ma non per questo convinti della completa malvagità dell’intera impalcatura pre-1989. Iliescu stesso dichiarò nel dibattito televisivo pre-elettorale che l’unico in grado di poter cambiare il sistema era chi il sistema lo aveva creato, conoscendolo a menadito. In fin dei conti egli credeva che bastasse cambiare uomini e alleggerire gli aspetti più grotteschi del regime per garantire un futuro prospero al paese. Il fatto di essere stato uno dei leader della rivoluzione lo aiutò enormemente, ma ancor di più fu la popolarità del suo braccio destro e futuro primo ministro, Petre Roman, a facilitare il suo trionfo elettorale. Era chiaro come il popolo romeno ritenesse che il problema fosse Ceauşescu, e non il comunismo in quanto tale. Solo così si può spiegare la clamorosa affermazione degli ex membri di partito.
Una costante della Romania contemporanea: la strada
Il movimento di Iliescu, che dopo la rivoluzione si era impadronito di tutte le istituzioni e aveva di fatto gestito la preparazione alle elezioni, non agiva nella più completa trasparenza, e ben presto si levarono le prime accuse. Si chiedeva maggiore spazio televisivo agli altri candidati e maggiore libertà di opinione. I giovani iniziarono a protestare nelle strade, dando vita così al cosiddetto “Fenomeno Piaţa Universităţii”. Migliaia di persone tra l’aprile e il giugno del 1990 si accamparono letteralmente nei pressi dell’università, scandendo slogan anti-Iliescu e anti-Fronte. Il movimento divenne ancor più forte dopo le elezioni; a giugno la Romania era sulla soglia della guerra civile. Iliescu diede ai manifestanti l’appellativo di golani, termine di non facile resa in italiano, potenzialmente traducibile con vagabondo, o accattone, ma che contiene al suo interno un’accezione ben più dispregiativa. In Romania le giornate di Piaţa Universităţii vengono oggi chiamate golaniada; furono gli stessi manifestanti che si arrogarono con orgoglio questo appellativo, grazie anche alle parole di una canzone scritta e cantata da Cristian Paţurca, artista morto nel 2011, che all’epoca si trovava in piazza. Il suo “Inno dei golani” è diventato il canto di battaglia degli anti-comunisti romeni, grazie anche agli ultimi versi, ancora oggi cantati con orgoglio nelle manifestazioni anti-Dragnea (“meglio golan che attivista, meglio morto che comunista”). Di fronte all’impossibilità di reprimere attraverso le forze dell’ordine le masse di manifestanti, Iliescu chiamò a raccolta i minatori della valle del fiume Jiu, cui conferì l’incarico di salvare la “Romania libera e democratica” dalle orde di golani. Tra il 13 e il 15 giugno del 1990 la piazza dell’Università si trasformò in uno scenario di guerra: i minatori massacrarono i giovani, molti furono arrestati e ulteriormente malmenati nelle caserme. I feriti furono diverse centinaia.
Un filo ininterrotto
Quel che accadde nel corso della cosiddetta mineriada, la calata dei minatori, spiega meglio di migliaia di resoconti sulle giornate di dicembre quel che fu la rivoluzione romena: una grande illusione. In 44 anni di regime comunista non si verificò mai un bagno di sangue pubblico, ordinato dall’alto, paragonabile al massacro compiuto dai minatori al soldo di Iliescu. Una pratica non del tutto defunta, se si prendono per vere le affermazioni di importanti commentatori romeni, tra cui Rareș Bogdan, Dragoș Patraru e Loredana Voiculescu, i quali hanno affermato (i primi due più esplicitamente della seconda) come dietro l’intervento degli ultras della Dinamo Bucarest nelle proteste di piața Victoriei del febbraio scorso vi sia la mano della leadership del Partito Social-Democratico, o di uomini a esso vicini. Certe costanti sopravvivono nella storia di un popolo e della sua infima classe dirigente, trascendono i regimi, e spesso si ripropongono. Fu proprio questo il vero movente della morte del Conducător; metterlo a tacere una volta per tutte, per far sì che chi si era abbeverato alla sua fonte, potesse ereditarne, indisturbato, il potere. Anche questa, una costante di transizioni mal riuscite da dittatura a democrazia. Qualcosa di cui l’Italia ha una discreta esperienza.
La rivoluzione di dicembre fu tutt’altro che uno spartiacque netto; uomini e mentalità comuniste erano ancora imperanti nella Romania del 1990 e lo sono, seppur indebolite, ancora nella Romania del 2017. L’attuale leadership socialista romena rappresenta l’ultima estremità di quel filo rosso che nasce con Gheorghiu Dej, continua con Ceauşescu e, nonostante la rivoluzione, sopravvive con Iliescu.
Fonte immagine: evz.ro