Lo scorso 13 luglio in Vaticano la commissione d’inchiesta mista, composta da croati cattolici e serbo-ortodossi, ha terminato i lavori sulla figura, tuttora estremamente controversa, di Alojzije Stepinac. La chiesa cattolica croata, da circa 20 anni, attende la canonizzazione di una delle personalità più significative della sua storia, arcivescovo di Zagabria e primate di Croazia dal 1937 al 1960, condannato da un tribunale partigiano in quanto “collaborazionista ustascia” nell’ottobre 1946. Vissuto a cavallo della Seconda guerra mondiale attraverso Regno di Jugoslavia, Stato Indipendente Croato e Jugoslavia socialista, la vita dell’arcivescovo croato presenta ancora diversi punti oscuri legati al suo rapporto con il regime ustascia di Ante Pavelić.
Il tortuoso cammino verso la canonizzazione
Nel 1998 papa Giovanni Paolo II, grande ammiratore del “martire croato” e fiero oppositore della dittatura comunista, non esitò a beatificare Stepinac. In molti si opposero alla decisione del papa: taluni sottolineavano gli aspetti più oscuri dell’attività pastorale di Stepinac, altri riflettevano sull’opportunità di una beatificazione che sembrava celebrare l’indipendenza croata raggiunta con la forza. Sia Giovanni Paolo II che successivamente Benedetto XVI vennero accusati dalla chiesa serbo-ortodossa di ignorare nelle loro preghiere le vittime serbe del regime ustascia, del quale ritengono Stepinac un collaborazionista.
Oggi, papa Francesco, cui è stata lasciata la patata bollente della canonizzazione, ha assunto un atteggiamento prudente, ben conscio che ogni concessione alle chiese dell’Europa centro-orientale incrementerebbe il settarismo etno-confessionale locale e indebolirebbe lo spirito ecumenico e il dialogo inter-religioso portato avanti dal suo pontificato. L’attuale pontefice ha quindi deciso, a luglio 2016, d’accordo con il patriarca della chiesa serbo-ortodossa Irenej, di avviare una commissione di indagine storica comune, formata da dieci esperti e uomini di chiesa – cinque nominati dai vertici cattolici croati e cinque dalla chiesa ortodossa serba – con il compito far luce sulle responsabilità dell’arcivescovo Stepinac riguardo le persecuzioni della popolazione serba nello Stato Indipendente Croato (NDH) sotto il regime ustascia di Ante Pavelić tra 1941 e 1945.
Giovedì 13 luglio la commissione mista si è riunita per l’ultima volta in Vaticano. La commissione presieduta da padre Bernard Ardura, presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, non è stata in grado di emettere un parere certo e unanime, ma riconosce che: “vari eventi, interventi, scritti, silenzi e prese di posizione sono tuttora oggetto di interpretazioni diversificate. Nel caso del cardinale Stepinac, le prevalenti interpretazioni date rispettivamente dai croati cattolici e dai serbi ortodossi restano ancora divergenti”. Tutti i componenti della commissione si dicono però soddisfatti del metodo di lavoro e si augurano che possa essere un modello per affrontare altre questioni storiche che dividono cattolici croati e serbo-ortodossi.
Dal sostegno entusiasta allo Stato Indipendente Croato alla denuncia del “marchio d’infamia” delle persecuzioni razziali
Le ricerche storiche sull’arcivescovo Stepinac sono spesso contraddittorie, influenzate da approcci di parte e dalla supposta contraffazione della documentazione originale. È noto che Stepinac era un cattolico integerrimo animato da uno spirito religioso al limite del fanatismo. In quanto oppositore della separazione tra Stato e Chiesa, non simpatizzava con l’idea di uno stato multi-religioso qual era il Regno di Jugoslavia. Nelle sue omelie spesso sembrava sostenere l’autonomismo croato, ma ne criticava le posizioni repubblicane e la lotta all’ordine costituito. Tuttavia l’arcivescovo accolse con entusiasmo la nascita dello Stato Indipendente Croato nell’aprile del ’41, benedicendo la volontà del regime ustascia di porre il cattolicesimo e la croce al centro dell’identità nazionale croata (Goldstein, 2011). In particolare, Stepinac fu favorevole ad alcune misure approvate dal regime: pena di morte per aborto e bestemmia e divieto di “pornografia” (intesa come semplice riproduzione di immagini femminili).
Il pieno sostegno iniziale si trasformò presto in aperto rimprovero durante le persecuzioni razziali testimoniate da un ampio carteggio (Krpina, 2011). Stepinac condannò fortemente il razzismo dichiarando che “non esistono razze né differenze tra i popoli della terra davanti a dio” e nel febbraio ’43 denunciò pubblicamente il campo di concentramento di Jasenovac come “un marchio d’infamia su tutto il popolo croato”.
Se non ci sono dubbi a proposito degli interventi di Stepinac a favore della popolazione ebraica, l’atteggiamento verso le persecuzioni a danno dei serbo-ortodossi è invece più ambiguo. Dalle ricostruzioni storiche è chiaro che l’arcivescovo considerava le notizie dei massacri di serbi come eccessi nell’ambito dell’attività bellica (Rivelli, 1999) In occasione dei massacri più noti, come quello di Glina nel 1941, Stepinac intervenne presso Pavelić. In generale, però, l’arcivescovo fu titubante, in dubbio se le morti fossero dovute alla ribellione contro lo stato croato o alla politica persecutoria.
Il processo popolare e la questione delle conversioni forzate dei serbi ortodossi
Nell’autunno del 1946, all’indomani della vittoria delle forze guidate da Tito, un tribunale del fronte di liberazione processò Stepinac per cinque capi d’accusa: oltre all’attività della chiesa cattolica in sostegno al regime ustascia, e al supporto fornito alle alte cariche del regime per fuggire all’estero (Pavelić vivrà a Roma fino al 1947 protetto dalla curia), Stepinac veniva processato per le conversioni forzate di massa dei serbi ortodossi perpetuate dagli ustascia col sostegno di monaci e sacerdoti.
Il fenomeno delle conversioni forzate di massa rappresenta uno degli aspetti in cui la responsabilità è più difficile da appurare. In un primo momento Stepinac condannò le conversioni forzate come contrarie alla morale cattolica, mentre successivamente invitava i propri sacerdoti a “convertire gli ortodossi se ciò avrebbe potuto salvargli la vita”. Proprio sull’impegno di Stepinac a favore dei perseguitati e sul suo assenso alle conversioni forzate, si scontrano le posizioni della chiesa cattolica croata e della chiesa serbo-ortodossa.
Il mito di Stepinac “martire” dell’anticomunismo jugoslavo
Con l’arrivo al potere del Fronte di liberazione popolare, le proprietà della chiesa vennero espropriate e gli istituti religiosi temporaneamente chiusi. In questo frangente Stepinac, nel settembre 1945, scrisse una lettera episcopale, letta in tutte le chiese croate, in cui invitò i cattolici a resistere alle ingerenze del potere secolare. Nel frattempo, alla richiesta di Tito di sostituire l’arcivescovo di Zagabria per la sua vicinanza al regime ustascia, Papa Pio XII rispondeva con un secco rifiuto.
L’arcivescovo Stepinac fu arrestato nel settembre 1946 e condannato a sedici anni di carcere, poi commutati in arresti domiciliari durante i quali poi morirà nel 1960. Papa Pio XII reagì al processo scomunicando Tito e tutti i vertici jugoslavi ed elevando Stepinac al rango cardinalizio nel 1952. Intanto, in ambienti cattolici si andavano diffondendo, anche grazie alla diaspora croata, le gesta del cardinale “vittima del comunismo”. La curia di Papa Pio XII, guidata da un forte anticomunismo, di fatto creò e diffuse il mito di Stepinac (Rivelli, 1999).
La canonizzazione di Stepinac oggi
Nel 1998, papa Giovanni Paolo II che per primo, tra i capi di stato, aveva riconosciuto l’indipendenza della Croazia dalla Jugoslavia, aveva solennemente beatificato l’arcivescovo Stepinac presso il santuario di Marija Bistrica di fronte a più di 500 mila fedeli. La beatificazione, alla presenza del Presidente croato Franjo Tuđman che raggiunge il pontefice sull’altare al termine del rito, dava un messaggio chiaro alla Croazia e ai suoi cittadini: simbolicamente veniva benedetta l’indipendenza croata appena raggiunta.
La canonizzazione di Stepinac è stata oggi investita di nuovi significati, con l’obbiettivo di rinsaldare gli opposti nazionalismi. Se quello croato sostiene la canonizzazione di una delle figure più importanti del proprio novecento, quello serbo la oppone evidenziando le persecuzioni secolari patite dai serbi in Croazia. L’atteggiamento dell’attuale pontefice sulla questione ha spiazzato cattolici e nazionalisti croati mettendo in discussione la secolare alleanza tra Vaticano e stato croato.
Ora, dopo la fine dei lavori della commissione, di ritorno da Roma, in Croazia viene sottolineato che la parte serba ha fallito nel dimostrare che Stepinac abbia collaborato con gli ustascia, mentre in Serbia si evidenzia che la commissione non ha effettivamente terminato il suo lavoro, sostenendo che non sia stato possibile accedere ad alcuni documenti contenuti negli archivi vaticani. Di fatto, entrambe le chiese guardano a papa Francesco: l’una spera nell’istituzione di un’ulteriore commissione, l’altra attendo solo la data finale per la canonizzazione.
Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association e PECOB, Università di Bologna.