Nell’epoca delle retoriche, quella dell’umiliazione perpetrata dall’Occidente ai danni della Russia dopo la Guerra Fredda, pur non più recentissima, mantiene una presenza latente sulla scena politica.
Il Cremlino vi ha fatto ricorso nelle più disparate occasioni e i più diversi sono stati gli episodi citati a suffragio di tale posizione. Tra i più gettonati, ovviamente, vi sono l’allargamento della NATO ad oriente e l’intervento della stessa nei Balcani, ma spesso rientra nel novero anche la corale opposizione della comunità internazionale all’intervento russo in Cecenia. Traendo vantaggio dalle difficoltà di Mosca, Washington ed alleati avrebbero spadroneggiato e commesso ingiustizie, noncuranti degli interessi altrui.
A contorno di ciò è solitamente servita una buona dose di disprezzo per Gorbachov e Eltsin, ossia coloro che avrebbero permesso all’Occidente di infierire su una civiltà pericolante ma pur sempre gloriosa. Lungi dall’essere un’autocritica costruttiva, si tratta piuttosto di un atto di espulsione dei due Presidenti dai ranghi dei “veri russi”.
Ovviamente, al di qua della barricata si nega ogni cosa. Tutto ciò che NATO e affini avrebbero compiuto sarebbe stato legittimo e rispettoso della controparte. Se l’Occidente mosse delle critiche, fu perché i principi di cui è baluardo furono lesi: una reazione era quindi necessaria. Senza contare, si dice, che dal 1991 la Russia si vide restituire più di 5000 testate nucleari dagli ex Paesi sovietici e, sempre col placet occidentale, mantenne il seggio permanente in seno al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dove mettere, poi, il supporto economico di cui beneficiò nelle prime fasi della transizione?
L’Occidente leva dunque gli scudi e sembra voler dire alla Russia di cercarsi scuse migliori per giustificare l’odierno atteggiamento revanscista.
La grande domanda a questo punto è: chi ha ragione? Esiste una verità tra le due posizioni opposte? O è almeno possibile mediare tra di esse? Sappiamo bene che bianco e nero in politica non esistono ma, anche se questo fosse il caso, la risposta alle nostre domande rimarrebbe una – e cioè che non importa. L’attribuzione di torto e ragione all’una o all’altra scuola di pensiero sarebbe un esercizio fazioso e contaminato dalla stessa retorica che cercherebbe di risolvere.
Anche posto che si trovi un’entità terza a cui entrambe le parti concedano diritto di sentenza, russofili ed atlantisti non smetterebbero lo stesso di contrapporsi lungo queste opposte versioni della realtà. Entrambe credibili, entrambe banali. A conti fatti, null’altro che strumenti di rivalità politica il cui scopo trascende la verità fattuale.
Questa contrapposizione di idee non nasce infatti da un bisogno di trovare la verità – intesa, come dovrebbe, in senso assoluto. Seguire una tale direzione, pertanto, non ha senso. In entrambi i casi, il fine ultimo, pratico e politico, è quello di mobilitare i rispettivi schieramenti, favorendo l’omologazione del pensiero e, tramite essa, la coesione degli spiriti. Che l’Altro sia un ingiusto oppressore od un bugiardo opportunista poco cambia. Così caratterizzato in modo negativo, la defezione dei propri supporter è scoraggiata ed al contrario si fa leva sul senso interno di comunità, in difesa dall’Altro.
In questo caso come in molti altri, è la narrazione storica che conta, non la storia in sé – che invece diventa pressoché irrilevante. In questi tempi moderni, cercare gli assoluti aiuta certamente a trovare il proprio comodo posto in uno dei tanti schieramenti disponibili. Allo stesso modo, però, non aiuta a liberarsi delle ricette universali che ci vengono offerte, da una parte e dell’altra. Spesso, avere uno sguardo critico richiede di farsi carico di un po’ di scomodità.