Ricordo la prima volta che l’ho vista, la mia vicina a Teheran, piccola e curva e con un foulard leggero in testa, bussare alla mia porta con fra le dita ossute che le tremavano una green card americana. Le era arrivata da poco e, non sapendo l’inglese, voleva capire se era tutto in ordine e quanto durasse. Un’ottantina d’anni, con due figli e nipoti ormai da decenni in America, la cosa per lei ovviamente era della massima importanza. Durava molto, 10 anni, scoprii dopo aver dato un’occhiata ai documenti che mi aveva portato. «Ora potrà restare a vivere negli USA», le dissi. «No, ormai sono troppo vecchia per trasferirmi, e poi mi sentirei un peso», mi rispose.
Da quel giorno, tornava di tanto in tanto a bussare alla mia porta. Si sedeva tranquilla sulla mia poltrona e mi raccontava del suo passato: di come fosse stata un’insegnante di persiano, e come dopo la morte del marito contasse i suoi giorni che restavano prima di riabbracciare nipoti e figli; spiegava – pacata, mai invadente – come il quartiere dove vivevamo, Farmanieh, neppure esistesse quand’era giovane, a parte qualche villa immersa nella natura. Una delle vittime dell’espansione urbana che ha travolto Teheran dal dopoguerra ad oggi, proprio come la sua è una delle tante famiglie disperse per il mondo in seguito alla rivoluzione del 1979. Un secolo tumultuoso, il Novecento iraniano, che ha stravolto intere vite, strappandole per sempre dalla loro patria. Parlava anche di religione e di politica, la vicina, e – cosa non troppo rara in Iran – nonostante fosse molto religiosa, non era per nulla morbida con il regime.
A volte, raramente, mi chiedeva piccoli favori, tipo comprarle un prodotto al supermercato o una medicina. Favori ampiamenti ripagati, fra l’altro, visto che una notte che ero restato chiuso fuori di casa (ero uscito senza chiavi, da vero idiota) mi aveva aiutato a risolvere la cosa, offrendomi in più whisky e sigarette insieme al figlio nel frattempo sopraggiunto da Los Angeles. Il tutto trattandomi come un ospite di riguardo – in perfetto stile persiano – nonostante fossero ormai le due passate. Ma questa è un’altra storia.
Ora – ultima di una serie di barbarie – la nuova versione del Muslim ban di Trump finisce per colpire proprio loro, le nonne iraniane. Persone come la mia ex vicina – e sono tante – che dagli anni settanta hanno avuto una parte consistente della loro vita finita oltre l’Atlantico, in quegli USA che dopo l’avvento di Khomeini sono divenuti il nemico numero uno di Teheran. Eppure, neanche negli anni bui di Bush o Ahmadinejad, a nessuno era mai venuto in mente di fermarle, le nostre nonne. Uno stato di diritto dovrebbe poter garantire regole valide per tutti, a prescindere da origini e religione. Ma ora è cambiata la musica, al tempo della scheggia impazzita Trump. Secondo quanto prevedono le nuove regole, infatti, nonni, nipoti, zii e cugini di cittadini provenienti da sei Paesi musulmani, fra cui l’Iran, non potranno più mettere piede negli USA, almeno per i prossimi novanta giorni, quando la Corte tornerà a pronunciarsi sul prosieguo del decreto. Un atto disumano e discriminatorio, come sottolineano le associazioni di iraniani negli USA, che altro obiettivo non ha, in ultima analisi, che recidere legami fra i due Paesi e mettere in atto l’ennesima provocazione nei confronti di Teheran.
Orrore degli orrori, si arriva a disquisire da un punto di vista normativo su cosa sia un parente stretto, e su chi possa quindi avere accesso negli USA: un fratello sì e un cugino no, benissimo il genero ma non lo zio, un sì alla fidanzata (dopo un ripensamento all’ultimo) e un no ai nonni. Arbitrio che si unisce a un altro orrido capriccio, che discrimina su base religiosa i cittadini di sei Paesi: Iran, Libia, Siria, Somalia, Sudan e Yemen. Questo dopo che lunedì la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconfermato l’ordine esecutivo voluto da Trump a gennaio, e già in precedenza sospeso. Tanta è la confusione sotto il sole d’America, dove la politica vera ormai è solo un ricordo, ma è fondamentale ribadire come oggi stia avvenendo qualcosa di grave: si sta giocando con la vita di decine di migliaia di persone, creando fratture e traumi in seno alle famiglie, discriminando su base religiosa esattamente come si faceva negli anni oscuri del fascismo.
Gli iraniani hanno risposto lanciando l’hashtag #GrandparentsNotTerrorists, ‘nonni non terroristi’, condividendo – fra ironia e provocazione – le immagini dei loro nonni sui social media. Su Twitter è intervenuto anche il ministro degli esteri iraniano Zarif, che ha parlato di “una dimostrazione davvero vergognosa di cieca ostilità nei confronti di tutti gli iraniani”. Come dargli torto. E chissà cosa penserà di tutto questo la mia vicina, che nella sua vita ne ha passate di tutte i colori: dal colpo di stato della CIA contro Mossadeq alla caduta dello scià, dalla guerra con l’Iraq ad Ahmadinejad e alle proteste dell’Onda verde. Sono sicuro che no, che una cosa simile succedesse nell’America che tanto amava – e dove era contenta crescessero i suoi nipoti – proprio non se l’aspettava. Ed io con lei.
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Foto: Kate Munsch/Reuters