di Marco Goldin
Jim è scozzese, ha passato i 60 da un po’ ed è arrivato in Romania un po’ per caso una quindicina di anni fa. Dopo aver lavorato come agronomo lunghi anni in progetti di sviluppo rurale in Africa, si ritrova in Romania e si innamora della Transilvania. Lui dice perché ha trovato una società contadina integra e con un potenziale agricolo unico ma probabilmente anche perché le colline e il cielo di questa regione gli ricordano il verde e il blu delle sua terra natia.
Nel 2007, quando per la prima volta è arrivato a Saschiz, racconta di essere rimasto folgorato dall’agricoltura che si praticava in zona: fattorie autosufficienti, cicli ecologici chiusi, grandissima qualità di ingredienti e pratiche.
Logorato e probabilmente un po’ frustrato dai limiti della cooperazione allo sviluppo Jim decide di cambiare approccio e di concentrarsi su un progetto imprenditoriale capace di generare dinamiche economiche e smuovere il limitato contesto della Romania dei primi anni 2000.
A oggi la sua impresa funziona e impiega una decina tra donne e giovani locali, producono marmellate e conserve usando ingredienti coltivati e raccolti nella regione e vendono in tutto il paese e all’estero.
Jim non si lamenta di come stanno andando le cose, il fatturato cresce e le prospettive sono di crescita sono abbastanza buone. La cosa che lo sconforta è l’incomunicabilità tra i valori e gli obiettivi “sociali” e le preoccupazioni meno visionarie dei suoi impiegati. E quindi periodicamente deve spiegare perché ha senso perdere tempo a sbucciare l’aglio rumeno dagli spicchi piccoli invece di comprare quello cinese dagli spicchi grandi.
Jim, dalla sua ottica di tecnico agricolo e occidentale “impegnato”, rappresenta per i locali l’unica risposta possibile in un momento di risorse e possibilità limitate. La relazione tra società umane e territorio era stata infatti disintegrata, in parte incoscientemente, durante il comunismo, in favore di un sistema agro-alimentare standardizzato e industriale. Per correggere le ingiustizie e iniquità del passato, i contadini erano diventati operai agricoli, dovendo però abbandonare tutto quell’insieme di sapere, pratiche e valori che li legava al proprio territorio. Con la fine del regime di Ceausescu bisognava quindi ripartire da zero, a maggior ragione in Transilvania dove la comunità sassone autoctona era stata allontanata. Di necessità, virtù.
Gli anni però sono trascorsi anche in Romania. Oggi il paese è un’economia di mercato ed ha aderito all’Unione Europea. La ruralità rumena ha cominciato quindi poco a poco ad assomigliare sempre di più a quella dell’Europa occidentale. I contadini lasciano la campagna per inseguire l’illusione di guadagni facili in città e all’estero; i giovani, spinti anche dai propri genitori, non considerano l’agricoltura come un’opzione. Cresce anche in Romania la dipendenza dai sussidi della PAC mentre terre e investimenti si concentrano nelle mani di grandi investitori stranieri. Si sviluppa l’agricoltura biologica ma più come etichetta che come alternativa sostenibile. Infine l’unica maniera di rivalorizzare la tradizione agricola e gastronomica locale sempre passare dalla mercificazione e folklorizzazione in chiave commerciale mentre la qualità del cibo quotidiano dei rumeni non fa che peggiorare.
Le critiche e le alternative a tutto questo ci sono e si stanno sviluppando anche in Romania, quello che inquieta Jim è come si sia imparato poco da ciò che è avvenuto negli ultimi 50 anni in Europa e si continui ad inciampare negli gli stessi errori. Dice però che sbagliando si impara e continua serenamente sulla sua strada.
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