di Giuseppe Mancini
La Turchia ha un nuovo governo, il terzo monocolore Akp di fila. La lista composta da 21 ministri e 4 vice-premier è stata approvata mercoledì dal presidente Abdullah Gül e annunciata subito dopo alla stampa dal primo ministro Recep Tayyip Erdoğan; venerdì inizierà il dibattito all’Assemblea nazionale, mercoledì prossimo la scontatissima fiducia (l’Akp ha ottenuto il 12 giugno 326 seggi su 550): poi si passerà alla nomina dei sottosegretari e dei recentemente istituiti vice-ministri che potranno provenire anche dal settore privato. Pochi i cambiamenti, poche le sorprese: Erdoğan ha scelto la continuità, valutando positivamente i risultati ottenuti in campo economico (crescita galoppante, disciplina fiscale, calo dell’inflazione e della disoccupazione) e in politica estera.
La Turchia ha anche un nuovo speaker dell’unica camera: Cemil Çiçek, l’ex ministro della giustizia e vice-premier dell’Akp. Che si è immediatamente trovato ad affrontare una crisi gravissima, il duplice boicottaggio dei lavori parlamentari del Bdp curdo, che non si è presentato ad Ankara e si è invece riunito autonomamente a Diyarbakır, e del Chp kemalista, presente ma formalmente assente perché rifiuta di prestare giuramento.
Perché questo gesto politicamente estremo? Per protestare contro il rifiuto della magistratura di scarcerare alcuni nuovi deputati – sei del Bdp, due del Chp – attualmente detenuti (preventivamente) perché accusati rispettivamente di legami coi terroristi del Pkk e di essere membri dell’organizzazione golpista Ergenekon. Tra i sei del Bdp, in effetti, ha perso il suo status di deputato, in virtù di una precedente condanna, Hatip Dicle; e rimane in prigione anche un ex generale eletto nelle fila dell’Mhp: ma il partito nazionalista non ha voluto saperne del boicottaggio, che anzi giudica una macchia nera e indelebile nella storia della Turchia.
La posizione del Bdp e soprattutto del Chp – al di là dei relativi meriti da esperire nelle aule dei tribunali – non appare del tutto convincente. Innanzitutto, da questa prova di forza potrebbero uscire sconfitti: ripetute assenze – fisiche o formali – conducono alla decadenza e ad elezioni suppletive, che verrebbero vinte a mani basse dall’Akp, salito ulteriormente al 55% nei sondaggi. Inoltre, danno la possibilità al partito conservatore d’ispirazione islamica di accreditarsi come forza della moderazione e del compromesso: e già Erdoğan e Çiçek, la cui scelta è stata comunque pubblicamente apprezzata dal leader dell’opposizione Kemal Kılıçdaroğlu, si sono già potuti permettere plateali inviti alla ragionevolezza, a trovare insieme in Parlamento soluzioni condivise.
Suscita molti dubbi, soprattutto, la battaglia del Chp in nome di chi, come Haberal e Balbay, rischia l’ergastolo per attività sovversiva: da parte di una forza politica progressista, che fa parte dell’Internazionale socialista e vuole conquistare voti parlando di diritti e giustizia sociale, la loro candidatura e adesso la loro difesa tenace ha provocato critiche da parte di molti analisti turchi e anche – come recitano i più aggiornati sondaggi – di settori cospicui del proprio elettorato.
La priorità nella Turchia dell’Erdoğan tris è la stesura di una nuova costituzione che sradichi definitivamente il sistema autoritario nato dal colpo di stato del 1980 e che trasformi il Paese in una compiuta democrazia di stampo europeo: la scelta è tra contribuire od opporsi al cambiamento che la stragrande maggioranza dei turchi reclama a gran voce, per il Bdp tra accettare e migliorare le aperture dell’Akp che offrono ai curdi diritti e autonomia o il sostenere implicitamente la disastrosa lotta armata. Per le risposte c’è tempo fino al 1° ottobre, quando il Parlamento riaprirà dopo la pausa estiva.