Aumenta drasticamente il numero di siti internet oscurati e inaccessibili in Azerbaijan. Questione di infrastrutture arretrate o di censura?
Dal 2013 ad oggi, sono sempre di più i casi di chiusura o blocco di piattaforme di informazione o reti sociali da parte del governo. Già in passato Reporters Sans Frontières aveva denunciato circostanze simili, come nel caso del blog satirico Tinsohbeti.com e di Imgur, la piattaforma di photo-sharing su cui erano stati postati anonimamente dei documenti hackerati dall’Ufficio Speciale per la Protezione Nazionale. Negli ultimi mesi la vicenda si è riaperta, in particolare a seguito della chiusura dei siti di alcune tra le fonti più autorevoli dell’opposizione del Presidente Aliyev, tra cui Turan TV, azadliq.info, azadliq.org (servizio di Radio Free Europe/Radio Liberty), e Meydan TV.
Secondo il Ministero delle Comunicazioni, che puntualmente nega ogni responsabilità, il web è assolutamente libero in Azerbaigian, ma “ha dei problemi di funzionamento, perché le infrastrutture sono sottosviluppate”. Di diverso avviso sono invece i numerosi attivisti azeri, i quali riferiscono che l’accesso alla rete nel paese è sì tecnicamente libero, ma non dal punto di vista politico, in quanto ognuno è libero di pubblicare su internet ciò che vuole, ma potrebbe subirne le conseguenze nella vita reale. La chiusura sistematica di siti internet non sarebbe dunque questione di malfunzionamento, ma solo una delle tante forme di repressione che colpisce chi prova ad esprimere una qualsiasi forma di dissenso.
A confermare questi sospetti, c’è poi un emendamento alla Legge sull’Informazione approvato lo scorso marzo, che avrebbe creato la figura del “censore”, attraverso cui il Ministero può vigilare ed eventualmente eliminare contenuti “illegali”.
Ma cosa vuol dire “illegale”? Il significato non è chiarito nel testo di legge, ma visti i precedenti e le ultime condanne, esso sembra traducibile in “contenuti scomodi per il governo”. Da quanto è emerso, è proprio sulla base della nuova legge che i siti sono stati bloccati, colpevoli di fare propaganda di estremismo religioso, di incitare atti quali la rivolta, l’evasione fiscale o addirittura il suicidio di massa. Tutte azioni appunto “illegali”, secondo i giudici, anche se per organizzazioni come Freedom House (secondo cui nel paese caucasico internet sarebbe solo parzialmente libero), si tratta di vera e propria censura da parte dello stato, pratica proibita dalla costituzione azera. Inoltre, il blocco di questi siti è stato condannato anche dall’Unione Europea.
Tuttavia, la legge è solo l’ultima di una serie di manovre volte a mettere a tacere gli oppositori. Pratiche come l’arresto dei maggiori attivisti azeri, spesso con capi di accusa costruiti ad hoc, sono ormai all’ordine del giorno, così come i decreti finalizzati a controllare e indebolire le ONG attraverso cavilli amministrativi e finanziari.
Internet sembrava essere rimasto l’unico spazio veramente libero a disposizione dei cittadini, ma a quanto pare è rimasto anch’esso vittima delle manovre governative. Già nel maggio 2013 il governo aveva criminalizzato la diffamazione online, ignorando le raccomandazioni del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, che chiedeva di eliminare del tutto tale reato, da sempre usato come strumento per colpire l’opposizione. Inoltre, Amnesty International ha recentemente provato che le stesse autorità usano il web per attaccare le proprie vittime, attraverso falsi contatti, mail e virus. Uno di questi casi ha riguardato Rasul Jafarov, famoso avvocato e difensore dei diritti umani che nel 2014, insieme a Leyla Yunus, aveva redatto la lista dei prigionieri politici azeri per il Comitato Helsinki. Alcuni amici dell’attivista avrebbero infatti ricevuto una mail da un suo falso profilo, la quale invitava a scaricare proprio la lista, trattandosi in realtà di un malware.
Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association e PECOB, Università di Bologna.