Il razzismo slavofobo nella stampa italiana. Il Fatto quotidiano e gli altri

Alcuni giorni fa, era il 12 aprile, il Fatto quotidiano ha pubblicato un articolo dal titolo “Igor, alla radice del male“, a firma di Veronica Tomassini. L’articolo si presta a letture su diversi piani: da quello linguistico a quello dell’immaginario, da quello storico a quello giornalistico, e ci dice molto dell’italica propensione al razzismo. Questa volta nei confronti degli slavi.

Protagonista dell’articolo è Igor Vaclavic, l’uomo che a Budrio ha ucciso il barista Davide Fabbri e da allora elude, braccato, le ricerche delle forze dell’ordine. Nei giorni in cui l’articolo è stato pubblicato ancora non si sapeva che l’assassino risponde in realtà al nome di Norbert Feher, e una ridda di supposizioni e illazioni circondavano la sua identità. Un russo, forse, o un serbo addirittura, comunque uno slavo, certamente addestrato e feroce. Elementi sufficienti a muovere le piccole fantasie di chi cerca la sensazione, lo scalpore, il sangue. E tale deve essere la fantasia dell’autrice dell’articolo in questione che, non senza compiacimento, esordisce con parole che meritano di essere lette con attenzione: “C’è una crudeltà slava o balcanica che è intraducibile. Può essere restituita solo andando alla radice di uno spirito nazionalista o di un gene persino“. Le parole sono importanti, diceva quel tale. Leggiamole di nuovo. Quella di Igor sarebbe, secondo la Tomassini, una “crudeltà slava” unica, per tipologia e ferocia, e quindi “intraducibile” che è possibile comprendere solo scavando nelle profondità dell’anima balcanica, figlia di quell’atavico “spirito nazionalista” o, persino, di un “gene”. Un gene. Diavolo, ha davvero scritto “un gene”. Secondo l’autrice, dunque, la barbarie slava ha un’origine genetica.

Una simile chiave di lettura è assai pericolosa poiché rinnova l’idea che i popoli siano classificabili in base alle loro caratteristiche biologiche. Il determinismo biologico è stato ormai ampiamente smentito ma, come vediamo, non passa di moda anche perché offre una spiegazione apparentemente scientifica al più antico dei mali, il razzismo.

Echeggia infatti, nelle righe della Tomassini, la perversa teoria dell’alterità slava, che fu cara al nazismo e che ancora oggi agisce sottotraccia e fa percepire lo slavo come “inferiore”. Non solo, c’è nell’articolo della Tomassini qualcosa di ulteriore rispetto al banale razzismo, ovvero quell’orientalismo che continua a gravare i Balcani, e il mondo slavo in generale, di stereotipi duri a morire. Lo stereotipo del “sangue e del miele”, della “polveriera”, del carattere primitivo dei suoi abitanti, dell’esotismo, della terra selvaggia. Un immaginario che in occidente riscuote ancora successo specie da quando – caduta la Jugoslavia – le guerre hanno riportato la regione sulle prime pagine dei giornali con storie, iperboliche, di violenza assoluta e assoluta barbarie. Un immaginario, inoltre, alimentato dalla cinematografia e dall’industria culturale poiché la barbarie slava vende sempre. E l’autrice pesca proprio da quel mondo romantico e primitivo à la Kosturica per descrivere l’innata crudeltà slava.

Dispiace che un giornale nazionale, come il Fatto quotidiano, abbia pubblicato sulla sua versione cartacea un articolo del genere. Vero è che, nella versione cartacea, il riferimento al “gene” della ferocia è stato espunto: autocensura tuttavia insufficiente poiché, anche senza quel riferimento, l’articolo è un inno al pregiudizio etnico e al razzismo.

Un razzismo implicito e involontario – questo sgomenta – che restituisce al lettore sempre la stessa immagine dei Balcani terra di odi atavici e – cito – “nazionalismo inveterato, issato con esultanza, che deborda […] in un inno popolare e sontuoso”. Inveterato, addirittura, così antico da non potersi più correggere, vizio omicida che diventa bandiera di un popolo. Quale popolo? Quello serbo, cattivo per definizione, malvagio responsabile di tutte le guerre, disumano nelle sue prove di sangue, capace di “uccidere una colomba a morsi” in nome dell’esaltazione bellica.

Questo razzismo implicito e involontario non è solo della Tomassini, che pure ne ha dato la prova più convincente, ma si ritrova in molti altri giornali che hanno trattato, a tinte fosche, il caso dell’assassino Budrio. E’ il caso di Repubblica quando scrive: “che sia davvero russo, invece no, pare piuttosto che venga dalla ex Jugoslavia. Comunque sia, viene dall’inferno”. Una frasetta da sussidiario che intende solo dare una patina selvaggia alla vicenda, ma che è il risultato dell’identico implicito razzismo, lo stesso che ci fa scattare in piedi quando all’estero descrivono il nostro paese come una terra di mandolini e lupare. La slavofobia, già diffusa in Italia, trova poi un utile vettore in articoli come questo, apparso su Il Giornale, in cui – improvvisamente – scopriamo che orde di ex-combattenti balcanici sono pronti ad assaltare le nostre case.

E’ il gioco della paura, cui troppo spesso i giornali amano giocare, che si ripete: spaventare il lettore con storie iperboliche, eccitarne la fantasia con narrazioni al sangue, cercare la sensazione anche falsificando la realtà.

Igor il “crudele”, il “russo”, il “serbo” è, in realtà, Norbert Feher, originario di Subotica, di famiglia magiara e lingua ungherese. Serbo per cittadinanza, non per nazionalità, e di “gene” quindi ugro-finnico e non slavo. Vero è che al momento della stesura dell’articolo della Tomassini non si sapeva ancora nulla della sua provenienza, ma questo non ha mosso alla prudenza, anzi, ci si è gettati sulle supposizioni come se fossero dati di verità: così, nell’articolo della Tomassini, è diventato facilmente un serbo assassino, mentre in questo di Fausto Biloslavo, un terribile russo che non teme la morte.

Nel coccolare le torbide fantasie dei lettori non si fornisce loro alcun servizio. Non si contribuisce a una descrizione oggettiva della realtà, non si aggiungono elementi di comprensione dei fatti. Dare ospitalità alle sciocche fantasie di una giovane scrittrice, come il Fatto quotidiano con la Tomassini, o rimestare nella stantia immaginazione italica, non è espressione di un giornalismo maturo e professionale.

Ecco perché ne abbiamo voluto parlare qui, per ricordare ai lettori le trappole che il giornalismo nostrano ogni tanto decide di tendere, alimentando pregiudizi e avallando implicitamente il diffuso razzismo presente nel paese, questa volta contro gli slavi ma già in opera verso i musulmani (balcanici o meno) e gli immigrati in generale. Forse meritiamo qualcosa di meglio, e qualcosa di meglio chiediamo come lettori e cittadini. Un giornalismo fatto di sensazionalismo e pregiudizi non svolge il compito che gli è proprio, diventando piuttosto un fedele servo del luogo comune.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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