Dopo mesi di schermaglie e proclami bellicosi, Ankara ha sferrato il primo serio colpo oltre confine. Nella notte di lunedì 24 aprile i caccia turchi hanno condotto un doppio attacco contro i curdi. Il primo è avvenuto a Malikiya (Derik in curdo), nell’estremo nord-est della Siria. La zona è da anni sotto il controllo delle milizie curde dell’Ypg e fa parte del sistema di cantoni del Rojava. L’altro bombardamento ha colpito il monte Sinjar, poche decine di chilometri più a sud ma già in territorio iracheno. Lì si fronteggiano da oltre due anni delle milizie locali formate dalla minoranza yazida (Ybş), addestrate dal Pkk, e i peshmerga del Kurdistan iracheno appoggiati dall’esercito turco.
L’esistenza del Rojava continua a essere il grattacapo principale per la Turchia. Ankara sta provando in tutti i modi a bloccare i curdi siriani. Lo scorso agosto aveva lanciato l’operazione Scudo dell’Eufrate in Siria, nel nord, per impedire che i curdi unissero tutti i loro territori a ridosso del confine. Ma i turchi sono riusciti ad avanzare poco per bloccarsi poi ad al-Bab, mentre l’esercito di Assad tagliava la strada da sud. I cantoni curdi (Efrin a ovest, Kobane e Hasakah a est) oggi non sono uniti formalmente, ma i buoni rapporti con le truppe di Assad e con la Russia garantiscono una sorta di ponte via terra.
Negli ultimi mesi la Turchia ha aumentato la pressione schierando uomini e mezzi a Silopi, da dove in pochi minuti potrebbero entrare tanto in Siria quanto nel Kurdistan iracheno e dirigersi verso Sinjar. Il timore di un’offensiva non è venuto meno e le bombe della scorsa notte lanciano un segnale chiaro. A frenare Ankara c’è però il veto opposto dagli Stati Uniti, che hanno nei curdi siriani il miglior alleato nella lotta contro l’Isis e sono impegnati in queste settimane nell’accerchiamento di Raqqa, l’autoproclamata capitale del califfato.
La Turchia ha implorato gli Usa di abbandonare i curdi e appoggiarsi alle sue truppe per quell’offensiva, ma Washington finora ha sempre rifiutato. E in un certo senso quest’ultimo attacco è un segnale anche agli americani. A cui anche i curdi siriani oggi fanno appello: «Una nazione che combatte il più brutale gruppo terrorista oggi è sotto attacco – ha dichiarato Salih Muslim, leader del partito curdo siriano Pyd legato alle milizie Ypg – La coalizione internazionale non può più stare in silenzio e accettare questo assalto».
Dal canto suo, la Turchia giustifica i bombardamenti come autodifesa, sottolineando i legami tra curdi siriani e Pkk, che con la primavera ha rinvigorito la campagna di attentati contro l’esercito turco. L’ultimo, a metà aprile, ha sventrato una caserma della polizia a Diyarbakir con due tonnellate di esplosivo. In un comunicato, l’esercito di Ankara ha presentato l’attacco contro le postazioni dell’Ypg vicino a Malikiya come il tentativo di prevenire l’afflusso di armi e esplosivi dalla Siria al Pkk in Turchia.
Identica la retorica usata da tempo per l’area del monte Sinjar: lo stesso Erdoğan ha minacciato più volte di intervenire per evitare che diventi “una seconda Qandil”, riferendosi alle montagne tra Turchia e Iraq, ben più a est, dove il Pkk ha il suo quartier generale storico. All’inizio di marzo vicino a Sinjar erano avvenuti scontri tra le milizie addestrate dal Pkk e alcuni gruppi di peshmerga. Incidente chiuso in pochi giorni, che però aveva fatto salire di nuovo la tensione. Arrivata a un nuovo picco con il bombardamento avvenuto nella notte del 24, che ha colpito alcune posizioni delle Ybş in cima al monte, a pochissima distanza dai campi profughi yazidi. Uno dei missili ha colpito, per sbaglio, anche un edificio in cui si trovavano i peshmerga, alleati di Ankara, uccidendo 5 militari e ferendone altri 7.
Che sia il preludio a un intervento più massiccio della Turchia, è ancora presto per dirlo. Certo è che Ankara sta mettendo bene in chiaro la sua determinazione. È difficile immaginare che l’esercito turco possa osare un’azione diretta nel Rojava, dove sono presenti anche numerosi militari americani. Meno problematico, anche grazie all’appoggio quasi incondizionato del presidente del Kurdistan iracheno Barzani, sarebbe un attacco a Sinjar. Ma scatenerebbe senza dubbio l’ira di Baghdad (Sinjar è occupato de facto dai curdi ma è in realtà un territorio conteso tra la regione autonoma del Kurdistan e l’Iraq), con cui la Turchia sta a fatica ricucendo i rapporti. Vista da Ankara, la situazione è ancora incerta: troppi i rischi, troppo vago il guadagno. Almeno per il momento.