Domenica 16 aprile circa 57 milioni di cittadini turchi saranno chiamati alle urne per esprimersi sul referendum costituzionale. Si tratta di un voto cruciale per il futuro della Turchia, poiché i 18 emendamenti alla Costituzione previsti dalla riforma, se approvati, trasformerebbero il sistema istituzionale del paese da parlamentare a presidenziale. Il potere si troverebbe concentrato nelle mani del presidente della Repubblica, dunque di Recep Tayyip Erdoğan. È proprio lui, il nuovo “Sultano”, il promotore della riforma, che gli permetterebbe di restare al potere almeno fino al 2029. La vera posta in gioco del voto, dunque, è un ulteriore scivolamento della Turchia verso un sistema autoritario.
La riforma costituzionale che sarà sottoposta al voto popolare è stata proposta dal partito di Erdoğan, l’AKP, ed è stata approvata in parlamento con il sostegno decisivo della destra del Partito del Movimento Nazionalista, MHP. Fortemente contrari, invece, i partiti di opposizione di centrosinistra: i kemalisti del Partito Popolare Repubblicano, CHP, e i filo-curdi del Partito Democratico dei Popoli, HDP. I 18 emendamenti prevedono l’abolizione del posto di primo ministro e l’accentramento del potere esecutivo nelle mani del presidente della Repubblica, che potrà nominare ministri, sciogliere il parlamento, dichiarare lo stato d’emergenza, emanare decreti e nominare metà dei membri della Corte Suprema. Inoltre, il presidente manterrà la carica di deputato e potrà essere leader di un partito politico, così da influenzare anche il potere legislativo.
La spaccatura emersa in parlamento riflette la forte divisione della società turca. I sostenitori di Erdoğan vedono nel sì alla riforma la strada maestra verso la stabilità politica, troppe volte messa in discussione da deboli governi di coalizione. I sostenitori del no denunciano un accentramento dei poteri che ha il sapore dell’autoritarismo, allontanando ancora di più il paese dagli standard democratici europei. La frattura viene registrata anche dai sondaggi, che danno il sì e il no molto vicini tra loro. Un’incognita è rappresentata dai nazionalisti: nonostante l’appoggio in parlamento, il leader dell’MHP, Devlet Bahçeli, ha lasciato intendere che il supporto del suo elettorato alla riforma non è affatto scontato, dopo le dichiarazioni a favore della federalizzazione del paese da parte di un consigliere di Erdoğan. Ma anche tra le fila dell’AKP si notano voci discordanti, come quella di Etyen Mahçupyan, già consigliere del premier Davutoğlu. La sensazione è che molti elettori non abbiano ancora deciso e scioglieranno il nodo solo al momento del voto.
Il clima che circonda il referendum è estremamente teso. La Turchia è ancora in stato di emergenza, dichiarato dopo il fallito colpo di stato del luglio scorso. I mesi successivi sono stati caratterizzati da arresti ed epurazioni a danno degli oppositori di Erdoğan, tra cui politici, giornalisti e professori universitari. Proprio alcuni dei maggiori oppositori alla riforma, tra cui il leader del partito filo-curdo Selahattin Demirtaş, sono ancora agli arresti, il che ha privato il fronte del no di voci autorevoli da contrapporre ad Erdoğan e al suo apparato di propaganda. La campagna elettorale è stata inoltre completamente sbilanciata a favore del fronte del sì, che ha occupato il 95% degli spazi radio-televisivi. Intanto, restano in prigione circa 140 giornalisti (nessuno ne conosce il numero preciso), tra cui personaggi di primo piano, ex direttori di giornali e televisioni.
A questo, si aggiungono il tragico susseguirsi di attentati che hanno colpito le città turche, la guarra civile in Siria che prosegue ai confini del paese, con la conseguente crisi dei rifugiati, e l’evoluzione dei rapporti con la Russia e l’Occidente. Proprio questo contesto dà una motivazione in più ai sostenitori della riforma: secondo la loro tesi, a fronte di una realtà instabile, la Turchia avrebbe bisogno di un uomo forte, che guidi il paese in un momento di difficoltà contro nemici interni ed esterni. Una posizione dimostrata da frequenti esternazioni nazionaliste, come la diatriba dello stesso Erdoğan contro Germania ed Olanda, accusate di nazismo per aver negato i comizi in favore della riforma, o la rinnovata proposta di reintroduzione della pena di morte – mossa che scatenerebbe l’espulsione della Turchia dal Consiglio d’Europa e metterebbe fine al suo percorso di integrazione europea, iniziato ormai trent’anni fa nel lontano 1987.
Alla luce di questo contesto, è evidente che il referendum di domenica assurge ad un ruolo decisivo per il paese, per il suo futuro assetto istituzionale, per il suo ruolo nel quadro internazionale. Domenica, e da lunedì in poi, la Turchia sarà in ogni caso un paese diverso.