di Roberto Reale
Il 20 marzo scorso Lubomír Zaorálek, ministro degli Esteri della Repubblica Ceca ed esponente del partito socialdemocratico di maggioranza ČSSD, ha rilasciato al quotidiano Hospodářské noviny un’intervista il cui contenuto ha destato una certa sorpresa, sia in patria che all’estero. Nell’intervista il ministro, contraddicendo sue precedenti dichiarazioni, ha assunto toni nettamente critici nei confronti dell’UE, le cui priorità non sarebbero state in consonanza con quelle del suo paese. La libertà di circolazione delle persone all’interno degli stati membri, in particolare, sarebbe un pericoloso fenomeno capace di minare la sostenibilità del progetto europeo, e dunque da restringere e regolamentare.
Ben comprensibile, ha affermato Zaorálek, è infatti il concentrarsi di consensi e volontà politica che hanno innescato la Brexit: ne sarebbero stati causa i “due milioni di persone dell’est che vi vengono in casa reclamando lavoro, welfare, benefici vari”. Glissando sull’ovvia considerazione che, per i cittadini britannici, anche la Repubblica Ceca è inclusa in quell’est dalla connotazione vagamente minacciosa, il ministro ha evitato con cura di precisare lo status dei migranti: il ricorso al termine generico lidé (gente) gli ha consentito, al contrario, di alludere ambiguamente tanto ai cittadini comunitari che si spostano per lavoro, quanto alla “minaccia” dei migranti extra-UE (ormai nel bene e nel male tertium implicito di ogni dialettica politica su suolo europeo).
Poco dopo la pubblicazione dell’intervista il ministro si è affrettato a dichiarare che le sue affermazioni sono state travisate, rivolgendosi direttamente ai cittadini tanto dai profili Twitter e Facebook quanto, di nuovo, dalle pagine di Hospodářské noviny. Tuttavia, più che di una smentita si è trattato di un tentativo di attenuare i toni della precedente dichiarazione, senza rinunciare a manifestare una posizione sostanzialmente ambigua nei confronti dell’UE.
Nella sua rettifica, infatti, Zaorálek si è detto convinto sostenitore dell’UE e della libera circolazione delle persone nei suoi confini; ma contestualmente ha ribadito la necessità di regolare i flussi della forza-lavoro, al fine di evitare che una politica di lassez-faire risulti in un collasso del progetto comunitario. A questo proposito sarebbe necessario, a detta del ministro, un maggiore coordinamento tra le politiche degli stati membri.
Il 2017 è un anno cruciale per la politica ceca: in autunno si giungerà a fine legislatura; e tra le tre maggiori compagini politiche in lizza — i socialdemocratici, il partito di centro ANO del magnate Andrej Babiš e il partito comunista KSČM, smaccatamente euroscettico — la partita si giocherà anche sul terreno dei rapporti con l’UE. Lo spettro di un Czexit, più volte evocato dal presidente Miloš Zeman e dal capo del governo Bohuslav Sobotka, torna a far capolino. Una campagna online per l’uscita dall’UE, promossa nel 2015, ha raccolto nel giro di due anni oltre 75.000 firme.
Anche in vista della tornata elettorale le esternazioni di Zaorálek, così come la successiva e parziale correzione di rotta, lasciano l’impressione che si voglia far leva su un diffuso sentimento popolare euroscettico di stampo populista per distrarre maldestramente l’attenzione del paese dalle inadempienze in politica interna (su crescita dei salari, educazione e ricerca, sviluppo economico) e uno sguardo poco lungimirante sulle scelte a lungo termine; a cui si somma il risentimento per una condizione di scarsa visibilità, rispetto all’ovvio peso di paesi come Germania e Francia, al cui proposito la recente relazione di Jean-Claude Juncker sui modelli di Europa “a più velocità” non sembra necessariamente garantire sollievo.
Foto: AFP Photo