Hanefija Prijić, detto Paraga, è stato condannato all’ergastolo dal tribunale di Brescia. L’ex comandante bosniaco è stato ritenuto colpevole di aver dato l’ordine di fucilare cinque volontari italiani nei pressi della città di Gornji Vakuf, nella Bosnia centrale, il 29 maggio 1993. Tre di loro, Sergio Lana, Fabio Moreni e Guido Puletti, persero la vita, altri due, Agostino Zanotti e Christian Penocchio, riuscirono a salvarsi. Una vicenda tragica, una delle tante storie all’interno del sanguinario conflitto bosniaco, che oggi vede fatta giustizia con la condanna all’ergastolo del ex comandante Paraga. Una giustizia, però, parziale: tanti aspetti della vicenda continuano ad essere oscuri.
Il processo
Il gip del tribunale di Brescia ha accolto la richiesta dell’accusa, condannando Paraga all’ergastolo. Nonostante l’ex comandante bosniaco abbia negato ogni responsabilità della strage, decisive sono state le testimonianze dei due volontari sopravvissuti, che hanno individuato in Paraga l’uomo che ha dato l’ordine di sparare sugli italiani. Una sentenza che dunque conferma, anzi inasprisce, la decisione presa da un tribunale bosniaco nel 2002, che aveva condannato l’ex comandante della 317esima brigata dell’Armija Bih a 13 anni di carcere. Scontata la pena, Paraga era stato poi fermato nel 2014 all’aeroporto di Dortmund e consegnato dalla polizia tedesca alle autorità italiane, in esecuzione dell’ordine di cattura emesso dal tribunale di Brescia.
I fatti
Il percorso processuale ha delineato chiaramente gli avvenimenti di quel tragico 29 maggio del ‘93. I cinque volontari italiani viaggiavano su due fuoristrada della Croce Rossa e della Caritas lungo la cosiddetta Diamond Route, nella Bosnia centrale, diretti alla città di Zavidovići. L’obiettivo era portare viveri alla popolazione vittima della guerra e attuare l’evacuazione di circa quaranta donne e dei loro figli, come d’accordo con le autorità croate e bosniache.
Nei pressi di Gornji Vakuf le auto furono fermate da una banda di miliziani bosniaco-musulmani, guidate da Paraga. Gli uomini armati trasportarono i cinque italiani attraverso un bosco fino a giungere nei pressi di una miniera abbandonata, dove Paraga, secondo la sentenza, ordinò ai suoi uomini di procedere alla fucilazione. Due volontari, Fabio e Guido, morirono all’istante, gli altri tre provarono a fuggire: uno di loro, Sergio, fu freddato durante la fuga, mentre gli altri due riuscirono a far perdere le loro tracce, salvandosi.
Le domande senza risposta
Fino a qui, i fatti accertati. Le domande senza risposta, però, restano tante, come dichiarato dai familiari delle vittime alla conclusione del processo. Negli anni della guerra, numerosi volontari, laici e cattolici, attraversavano la Bosnia per portare aiuti: ci furono casi di rapine, ma mai di uccisione. Perché gli uomini di Paraga spararono sugli italiani? La decisione fu presa dal comandante in autonomia o eseguì degli ordini provenienti da livelli superiori? Se fosse così, chi sono i veri mandanti della strage e quali le reali motivazioni? Diverse versioni sono emerse negli anni, dal piano orchestrato dalle autorità italiane con lo scopo di favorire un coinvolgimento maggiore dell’Italia nel conflitto, all’azione di cellule legate al neofascismo impegnate nel traffico delle armi nei Balcani.
Se la sentenza del tribunale fa chiarezza sul ruolo di Paraga, e lo consegna alla giustizia, il rischio è che ora si possano spegnere definitivamente le luci su una vicenda che ha ancora molto lati oscuri. I familiari di Guido, Fabio e Sergio meritano di conoscere la verità e la speranza è che la strage di Gornji Vakuf non venga dimenticata.