Il primo marzo a Sarajevo è giorno di fiori, ma non di primavera. Sono fiori che commemorano il sangue versato per l’indipendenza del paese, ma anche fiori di rancore e divisione. Il primo marzo del 1992, infatti, è stato il giorno in cui la Bosnia Erzegovina decise, tramite referendum, di dichiararsi indipendente. Il “giorno dell’Indipendenza” bosniaco, però, è una celebrazione a metà, boicottata dai serbi di Bosnia e dai loro rappresentanti politici, rinnovando le divisioni che contribuirono a quel grande macello che fu la guerra.
Così, mentre il presidente Bakir Izetbegovic depositava fiori ai piedi del monumento ai caduti, il membro serbo della presidenza tripartita, Mladen Ivanic, dichiarava che per lui “il primo marzo è il giorno in cui la guerra ebbe inizio e il primo serbo fu ucciso in Bosnia Erzegovina”. Il giorno in cui “cominciò la pulizia etnica a danno dei serbi di Bosnia”, secondo Milorad Dodik, presidente della Republika Srpska, l’entità a maggioranza serbo-bosniaca del paese. “È solo una festa dei bosgnacchi“, prosegue Dodik, che lo scorso 9 gennaio ha celebrato un “Giorno della Republika Srpska” che ricordava la secessione dei serbi di Bosnia avvenuta anch’essa nel 1992. Una celebrazione, quella voluta da Dodik. dichiarata incostituzionale poiché discriminatoria di una parte della cittadinanza.
La Bosnia Erzegovina (BiH) è una repubblica parlamentare composta da due entità: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH, anche detta semplicemente Federacija) che comprende il 51% del territorio, a sua volta suddivisa in dieci cantoni; e la Republika Srpska (RS) 49% del territorio, senza cantoni. C’è poi il distretto autonomo di Brcko. Ad entrambe le entità è concessa libera giurisdizione ed amministrazione sulla maggior parte delle questioni, restando entrambe inquadrate nella comune cornice statale che ha competenza esclusiva su ristretti ambiti, quali la sovranità monetaria e la difesa.
La presidenza La presidenza è tripartita, e secondo il principio primus inter pares è presieduta a rotazione tra i suoi componenti: un serbo, eletto in Srpska, e un croato e un bosgnacco eletti in Federazione.
Il parlamento La BiH ha un proprio parlamento statale, l’Assemblea Parlamentare, che si compone di due camere: la Camera dei Rappresentanti, con 42 membri eletti per due terzi in Federazione ed un terzo in Srpska; e la Camera dei Popoli, con 15 membri: 5 bosgnacchi e 5 croati eletti in Federazione, e 5 serbi eletti in Srpska.
I parlamenti delle due entità La FBiH ha dieci cantoni, ognuno con proprie istituzioni locali, e ha un proprio parlamento bicamerale composto da una Camera dei rappresentanti (140 membri), e da una Camera dei popoli (65 membri, cioè 17 per ogni nazionalità, eletti dalla Camera dei rappresentanti). La Republika Srpska ha un parlamento monocamerale con 83 membri e forma semi-presidenziale, per cui è il presidente (eletto a suffragio universale) che nomina il primo ministro dell’entità.
Tuttavia, per molti serbi di Bosnia, la memoria di quel 1992 è ancora oggetto di contesa. Fu certo l’annus horribilis del paese, anche se per lungo tempo i musulmani si erano “cullati nell’illusione che la secolare komšiluk – parola di origine turca che indica la buona convivenza tra vicini – li proteggesse dagli odî e dai sospetti reciproci” (Pirjevec, 2001). Un’illusione che li rese abbastanza ciechi da non vedere come il Piano Ram, che prevedeva la creazione di una Grande Serbia che giungesse all’Adriatico, avesse portato nella regione circa 100mila soldati dell’esercito jugoslavo (JNA) a tutela delle molte fabbriche belliche (il 55% del totale, nonché il 66% dei depositi di munizioni) e dei disegni di Belgrado, ben decisa a non cedere un palmo di territorio bosniaco ai desideri di indipendenza locali. Anche perché quei desideri erano già stati formalizzati con la richiesta alla CEE di riconoscere la sovranità e indipendenza della Bosnia Erzegovina, cosa che gli europei condizionarono alla tenuta di un referendum (Pirjevec, 2001).
Fu la commissione Badinter, promossa proprio dalla CEE, a stabilire che tale referendum dovesse tenere conto del volere di tutte e tre le etnie (serbi, croati e bosgnacchi) ma questa saggia richiesta non fu presa in considerazione dai diplomatici portoghesi che, dal gennaio 1992, si occuparono della questione essendo il loro paese presidente di turno della Comunità europea. I portoghesi rassicurarono i leader croati e bosgnacchi che l’indipendenza sarebbe stata riconosciuta se la maggioranza degli elettori si fosse espressa in tal senso, senza considerazione delle etnie di appartenenza. Fu un errore grave.
Il 9 gennaio i rappresentanti dei serbi di Bosnia, guidati da Radovan Karadžić fondarono la Republika Srpska (RS), opponendosi all’indipendenza della Bosnia Erzegovina. I leader serbo-bosniaci non volevano separarsi da Belgrado o, comunque, pretendevano che venissero garantite autonomie ai serbi, i cui confini non furono mai definiti in modo unanime tra le parti. Si arrivò così al referendum che fu boicottato dai serbo-bosniaci.
Solo il 63,4% degli aventi diritto prese parte al voto. Di questi, il 99,7% voto a favore dell’indipendenza. I serbo-bosniaci, che erano il 31% della popolazione totale nel 1991, attribuirono la bassa affluenza alle urne alla loro assenza, sostenendo quindi che la componente serba della Bosnia Erzegovina non voleva l’indipendenza e che il paese, in base alle indicazioni della commissione Badinter, non poteva abbandonare la Belgrado. Oltretutto l’affluenza non aveva raggiunto la soglia dei due terzi che la CEE aveva indicato come requisito per la validità del referendum. Malgrado ciò, il 3 marzo Alija Izetbegović dichiarò l’indipendenza del paese. Il giorno successivo gli USA fecero pressioni sulla CEE affinché venisse riconosciuta l’indipendenza bosniaca, cosa che avvenne il 7 aprile (Bourg e Shoup, 1999). Lo stesso giorno i serbo-bosniaci dichiararono l’indipendenza della Republika Srpska. Intanto, il 5 aprile cominciava l’assedio di Sarajevo da parte delle truppe serbe e serbo-bosniache.
Il primo marzo, quindi, è un giorno che non può unire le memorie divise da venticinque anni di rancori, da una guerra fratricida, da retoriche sempre infocate di rabbie. Il primo marzo è il giorno del controverso referendum, è il giorno in cui venne ucciso Nikola Gardović, durante un matrimonio ortodosso nella città vecchia di Sarajevo, da parte di oscuri estremisti musulmani. E’ il giorno che vide scorrere il primo sangue per le vie di Sarajevo. E’ il giorno delle prime barricate in città. E’ il giorno della separazione.
Una separazione che è stata cristallizzata nella complessa costituzione daytoniana, e che sopravvive nelle memorie alimentata anche da retoriche faziose e parziali da parte dei leader politici locali. A distanza di venticinque anni c’è ancora chi accusa Alija Izetbegović e i leader musulmani di avere causato la guerra, forzando la mano all’indipendenza. Accuse che non giovano alla stabilità del paese, visto che il figlio di Alija è oggi uno dei presidenti del paese. D’altro canto resta vivissimo il ricordo della pulizia etnica dei musulmani di Bosnia da parte dei serbo-bosniaci, dell’eccidio di Srebrenica, e del lungo assedio di Sarajevo con le sue inutili stragi e i cecchini appostati sulle colline.
Oggi la Bosnia Erzegovina è imbalsamata in una struttura costituzionale farraginosa, che alimenta “l’etnopoli” e le sue divisioni invece di risolverle. Nella storia recente si sono viste altre guerre civili, non meno atroci, in Spagna, in Italia o in Irlanda, ma dopo la guerra quei paesi hanno trovato al loro interno la forza di superare il trauma e rifondarsi in nome di un nuovo contratto sociale, uscendo dalle secche della divisione. Nel caso bosniaco la soluzione è giunta dall’esterno, calata dall’alto, con leggi e confini decisi in una lontana base militare americana, Dayton appunto. E forse il problema della Bosnia Erzegovina, della sua indipendenza, della sua libertà, della sua unità, è tutto lì.