di Simone Zoppellaro e Lorenzo Marinone
Gli ingredienti per una nuova escalation ci sono tutti: test missilistici, nuove sanzioni e accuse altisonanti. Nelle ultime settimane Iran e Stati Uniti sembrano tornati a una contrapposizione frontale, avversari intenti a fare a brandelli ciò che li aveva riavvicinati, quell’accordo sul nucleare raggiunto nemmeno due anni fa. L’accordo, per il momento, resta in piedi. Per scardinarlo davvero serviranno azioni ben più sostanziose di quelle compiute finora. Ma il gelo nei rapporti tra Teheran e Washington può produrre già tra pochi mesi una vittima eccellente. È il presidente Rohani, con il suo ruolo ormai vuoto di mediatore e nessuna riforma da sbandierare alle elezioni di maggio.
Il 29 gennaio l’Iran ha effettuato dei test missilistici. Gli Stati Uniti hanno risposto allungando la lista delle sanzioni alla Repubblica islamica. Donald Trump ha rincarato subito la dose bollandola come “il maggiore sponsor del terrorismo”. Il botta e risposta è proseguito con nuove esercitazioni militari da parte dell’Iran e una staffilata colma di sarcasmo della Guida suprema. Khamenei ha ringraziato la nuova amministrazione a stelle e strisce perché, con provvedimenti come lo stop all’immigrazione, avrebbe finalmente rivelato il “vero volto” dell’America.
Sul piano della retorica, queste ultime settimane sembrano davvero aver riportato i rapporti tra i due paesi ai tempi dei “morte all’America” e “stato canaglia”. È davvero così? A osservare con più attenzione la liturgia dello scontro saltano all’occhio dettagli che stridono con questa versione dei fatti. Il test missilistico non ha violato nessuna regola. Non ha infranto la risoluzione dell’ONU che impedisce a Teheran di sviluppare e lanciare missili capaci di portare una testata atomica, visto che i test riguardavano altri sistemi d’arma, convenzionali. Né, tantomeno, ha disatteso l’accordo sul nucleare. Dettagli, si fa per dire, che sono chiari tanto a Teheran quanto a Washington. E anche le sanzioni americane sono più annuncio che sostanza: 25 nomi, non di rilievo, aggiunti ad una vecchia lista nera.
È lecito che nasca il sospetto: lo scontro – per ora – sembra più che altro una recita, un balletto che nasconde la reciproca convenienza nel breve termine. È sospetta la tempistica dei test iraniani, pochi giorni dopo l’insediamento di Trump e 48 ore dopo la firma del cosiddetto “Muslim ban”. Teheran non poteva pensare che gli Usa avrebbero taciuto, non dopo i messaggi anti-iraniani più che chiari lanciati da Trump in campagna elettorale. La risposta sproporzionata degli Usa, d’altro canto, lascia pensare che le pallide sanzioni messe in campo siano più che altro un messaggio amichevole verso quei paesi – Israele e Arabia Saudita – che vedono nell’Iran il nemico numero uno e con cui i rapporti erano incrinati a causa di molte scelte di Obama in politica estera. L’accordo sul nucleare, quindi, per il momento resta dov’è. Non è questa la vittima dello scontro. La vittima, quella vera, è semmai il presidente iraniano Rohani.
Che, dal canto suo, ha davvero pochi risultati concreti da presentare agli elettori per ottenere un nuovo mandato presidenziale nel voto di maggio. Pesa la battuta d’arresto nel riavvicinamento all’Occidente, certo, ma non solo: Rohani ha mancato il bersaglio in economia, che continua ad arrancare, ma anche sul terreno dei diritti civili. Va tenuto presente inoltre che oggi più che mai, nella prospettiva dei falchi iraniani, il Grande Satana ha un volto credibile: quello tragico e farsesco a un tempo di Donald Trump. Ed ecco allora che il presidente riformista rischia di passare alla storia come una pedina sacrificata dal regime per un riavvicinamento fallito di cui le alte sfere del potere, da Khamenei ai paramilitari, non volevano prendersi la responsabilità.
Ma a pesare non è solo la politica estera, come dicevamo: restano sotto tiro tutte le forme di dissenso politico, senza svolte sensibili dall’epoca di Ahmadinejad, come anche le minoranze etniche e religiose. E questo nonostante le varie aperture messe in atto in un primo momento da Rohani, ad esempio, nei confronti di ebrei e curdi: dal riconoscimento del riposo scolastico del sabato per i primi, all’insegnamento linguistico universitario per i secondi. Ma nulla di più concreto è seguito, e anzi il conflitto con la minoranza curda sta toccando uno dei momenti di massima tensione da molti anni a questa parte. Una svolta platonica, quella dell’amministrazione Rohani, che ha riguardato assai più il mondo delle idee che quello reale. Se l’Iran resta, ieri come oggi, un paese assai più aperto e tollerante di molti altri, ciò è dovuto in gran parte alla sua società civile, assai più avanzata di quanto comunemente si creda.
Secondo un sondaggio pubblicato negli ultimi giorni da Zogby Research Services, il 70% degli iraniani si dicono insoddisfatti dei progressi democratici e della situazione dei diritti civili e personali nell’epoca Rohani. Paradossalmente, con l’attuale presidenza le condanne al carcere e le esecuzioni, anche per reati politici, sono aumentate. Se si considera il dissesto economico che continua ad aggravarsi, specie per la classe media, quella di Rohani rischia di dimostrarsi una fugace apparizione, solo un’occasione sprecata. Un mutamento di immagine verso l’esterno, un’apertura al mercato internazionale, forse solo provvisoria, che è corrisposta a una situazione interna per poco o nulla mutata.
E servirà allora ben altro che il piccolo Rohani per smuovere dall’interno questa civiltà millenaria, un colosso che col peso della sua storia e la sua ascesa inarrestabile (non certo dell’ultima ora) era impossibile lasciare ancora fuori dai giochi della diplomazia internazionale. Con o senza il presidente riformista, con o senza i suoi timidi balbettii. Ma non si illudano i molti avversari dell’Iran: non sarà certo la caduta di Rohani o la messa in discussione dell’accordo sul nucleare a mettere da parte Teheran. Il potere – quello della guida suprema, dei paramilitari e dell’apparato statale – può fare benissimo a meno di entrambi. Ma le grandi sfide che ha davanti in Medio Oriente – dalla Siria, all’Iraq, allo Yemen – quelle no: non possono che passare da Teheran.