Per comprendere meglio le dinamiche delle manifestazioni di protesta che si tanno svolgendo in Romania in questi giorni Eastjournal ha intervistato lo storico Stefano Bottoni, ricercatore dell’Accademia delle Scienze ungherese e profondo conoscitore della Romania.
Negli ultimi giorni si susseguono manifestazioni imponenti in Romania. Cosa ha spinto i romeni a scendere in piazza?
Credo che si siano sovrapposte diverse motivazioni. Accanto a quelle legate al decreto legge n. 13 approvato d’urgenza e oggetto primario delle manifestazioni, hanno contato motivazioni più generali e impalpabili, ma riassumibili in uno sfogo di rabbia e frustrazione generale contro il sistema politico, contro una classe politica corrotta, arrogante e incapace.
Il governo è in difficoltà, ma lo stesso è stato eletto appena qualche mese fa con un’affermazione netta. Ha già perso il suo consenso?
Sicuramente il governo appare in grande difficoltà sul piano pubblico. Non parlerei tuttavia di perdita di consenso, in quanto chi sta manifestando in piazza non aveva votato per i socialdemocratici ma piuttosto per il partito USR o per i liberali. Molti addirittura non si erano recati alle urne. Le manifestazioni fotografano piuttosto un paese lacerato da faglie conflittuali molteplici (città e campagna; giovani e pensionati; classe media urbana e ceti operai o marginali). La protesta è sostenuta da organi di informazione rivolti ai ceti istruiti, più o meno benestanti, e occidentalizzati. Ho molti dubbi che abbia qualcosa da dare alla Romania profonda, che ha sempre votato PSD perchè dipendente fortemente dallo stato.
La presidenza Johannis per molti versi è stata una delusione. Ora il Presidente è andato in piazza a manifestare. Queste mobilitazioni possono essere una nuova occasione politica per lui?
Johannis era emerso come il principale sconfitto delle elezioni di dicembre e queste proteste rappresentano senz’altro per lui un’occasione per tornare protagonista. Johannis sostiene apertamente le proteste e tiene stretti legami con le ambasciate occidentali e gli organismi europei. Non bisogna poi dimenticare che il presidente controlla anche i servizi segreti (il potente SRI), servizi che ricoprono in Romania un crescente ruolo politico e il cui budget è stato fortemente decurtato per il 2017 dal governo Grindeanu. Ciò ha generato un conflitto istituzionale che non ha precedenti nella Romania post-1989.
La corruzione non è un fenomeno nuovo per la Romania. Come nasce e si sviluppa questo problema?
La corruzione in Romania fa parte del normale rapporto stato-cittadino. E’ forse impopolare ricordarlo durante queste immense manifestazioni ma, sul piano storico, questa condizione non nasce nei decenni del post-comunismo ma condiziona tutto lo sviluppo dello stato unitario romeno e attraversa tutto il Novecento. Inclusa l’epoca “d’oro” del periodo interbellico in cui proprio in segno di critica radicale all’intera classe politica un gruppo di studenti universitari diede vita negli anni ‘20 a quello che sarebbe diventato il più imponente movimento di massa dal basso della storia del paese: la Legione dell’Arcangelo Michele, divenuta in seguito Guardia di Ferro. Un movimento antisistemico, antisemita, animato da fanatica lucidità. Non voglio naturalmente abbozzare alcun paragone improprio ma semplicemente ricordare che, nel passato di questo paese, la “lotta alla corruzione” si è più volte accompagnata all’arbitrio e alla brutalità. Come ha ricordato recentemente lo storico Lucian Boia, il comunismo porta responsabilità particolarmente gravi per l’aggravamento dello stato della moralità pubblica, in quanto ha costretto la gente comune “a nascondersi, a mentire e a rubare”. L’assenza delle regole, o il non rispetto di un intrico di norme a volte contraddittorie è sopravvissuta al crollo del regime di Ceaușescu ed è rimasta una delle principali strategie di sopravvivenza e affermazione individuale.
In queste giornate l’UE è intervenuta in maniera forte. La Romania sembra uno dei pochi paesi dove la fiducia e la speranza in Bruxelles rimane intatta. Quanto importanti possono essere le pressioni della UE?
Il motore delle grandi manifestazioni di questi giorni è la giovane (under 40) classe media urbana, ovvero la generazione nata e/o cresciuta dopo la caduta del comunismo. Studenti, professionisti, quadri dirigenti, imprenditori e addetti delle molte imprese multinazionali condividono un sentimento di profonda e crescente sfiducia nei confronti dello “stato”, percepito come un’entità estranea quando non ostile. L’UE e l’Occidente restano un punto di riferimento di civilità e valori, inclusi quegli Stati Uniti per i quali la Romania rappresenta in questo momento l’unico alleato nello scacchiere del Mar Nero e quindi un partner irrinunciabile. Non stupisce quindi la fiducia, a tratti ingenua, riposta nelle istituzioni europee. Bisognerà capire come l’UE, mai così divisa e fragile, possa reagire con efficacia all’ennesima sfida che giunge dalle periferie orientali. Sino ad ora il vincolo di appartenenza alle grandi famiglie politiche ha rappresentato una barriera insormontabile: in Ungheria Fidesz, il partito del premier Orbán, ha ottenuto la protezione del PPE. Negli anni 2006-2010, un analogo scudo fu eretto dai socialisti europei in difesa dello slovacco Fico, e più recentemente un analogo compattamento ha evitato sanzioni al socialdemocratico romeno Ponta e ai socialisti bulgari. Le diplomazie occidentali conservano la possibilità di esercitare a est di Vienna una certa “moral suasion”, magari corroborata da minacce economiche, ma finchè i fondi di coesione e sviluppo europei ingrassano le élite al potere, non vedo molte possibilità di influire dall’esterno sugli eventi.
Le proteste degli scorsi anni non sono sfociate in un’alternativa politica (se si esclude USR) e si sono spente altrettanto velocemente di come sono nate. Le manifestazioni dei giorni scorsi subiranno lo stesso andamento oppure c’è la possibilità di creare un’alternativa?
E’ chiaro che le forze politiche di opposizione, dall’USR ai liberali del presidente Johannis, cercheranno di appropriarsi di un movimento così dirompente. Deve tuttavia far riflettere i cantori dell’antipolitica la rapida parabola discendente dell’USR, movimento nato come alternativa al “sistema” ma presto invischiato in trame di potere e conflitti interni. Devo confessare un certo pessimismo di fronte alla possibilità che da queste manifestazioni emerga una classe dirigente alternativa o quantomeno il progetto di una Romania radicalmente diversa e “migliore”. Bisognerebbe partire dalla quotidianità, dalla ribellione individuale dei cittadini di fronte ai piccoli soprusi comunemente accettati, come le lucrosissime mance obbligatoriamente richieste dai medici degli ospedali pubblici prima (!) dell’intervento programmato. Questo sarebbe il segnale che lo spirito pubblico è davvero cambiato.