di Elisa Todesco
In molti paesi occidentali l’elezione di Donald Trump ha generato un acceso dibattito sull’influenza, diretta e indiretta, che i social media hanno sulla partecipazione politica. Trovare delle soluzioni per fronteggiare il fenomeno della diffusione di fake news e dell’aggressività dilagante sui social è diventata una questione di primaria importanza. Tuttavia, nonostante quella che potrebbe essere la nostra percezione, non è solo “l’occidente” a doversi confrontare con il problema sollevato dai social media, ma è una tematica che interessa da vicino anche paesi dell’est, come ad esempio l’Azerbaigian.
L’Azerbaijan, il cui controllo sulle fonti d’informazione è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni, si trova a dover fronteggiare un mondo “online” libero, nel quale il controllo tentacolare del governo non è riuscito ancora a scalfire la libera espressione. Almeno finora.
Infatti, fino a novembre 2016, i social media hanno rappresentato l’ultimo luogo in cui chiunque, giornalisti, attivisti, ma anche cittadini comuni, potessero esprimere le proprie opinioni e la frustrazione nei confronti di un governo sempre più autoritario e di una crisi economica sfibrante.
Poi, tutto è cambiato. A novembre è stata emanata una nuova legge dal parlamento azero destinata alla regolamentazione del flusso di informazioni e di opinioni personali che vengono veicolate tramite piattaforme online. Il focus della nuova legge si trova nel rapporto fra il reato di vilipendio e la libertà di espressione offerta dai social media e dai blog.
Il parlamento ha concluso che verrà considerato un crimine insultare il presidente azero Ilham Aliyev anche sui social media. Chi dovesse nascondersi dietro fake account potrà vedersi costretto a pagare una multa di 1500 manats (circa 800 euro, tenendo sempre presente che il salario minimo in Azerbaijan corrisponde a 166 euro) e a scontare fino a tre anni in carcere; più lievi, invece, le pene per chi utilizza un account in cui sia evidente il nome reale della persona (si scende a due anni di carcere).
Questa nuova restrizione della libertà di espressione va ad aggravare la situazione di un paese già fortemente repressivo. Per farci un’idea di quello che deve affrontare un giornalista basta citare le parole di Ismaylova, giornalista dapprima incarcerata, ora in esilio: “Il giornalismo indipendente non esiste praticamente più in Azerbaijan, non ci sono media che non siano sotto il controllo governativo”. Il pugno di ferro adottato contro il giornalismo indipendente ha fatto scivolare il paese al 163esimo posto per la libertà di stampa nel ranking mondiale. A partire dal 2014, il presidente Aliyev ha condotto una guerra personale contro critici e oppositori, che ha determinato una serie di azioni a partire dal determinare l’asfissia economica dei giornali non sottoposti a controllo governativo, fino ad arrivare all’arresto, al ricatto, alla tortura e alla molestia ai danni di giornalisti indipendenti e bloggers. A ciò si aggiunge il blocco il traffico e l’accesso siti d’informazione alternativa, anche esteri, da parte dei due provider azeri, Azertelecom e Delta Telecom, entrambi sotto controllo statale.
La conclusione possibile della vicenda è solo una: questa nuova legge, che non colpisce solamente i giornalisti “dissidenti”, ma anche il cittadino comune, non può determinare altro se non un’ulteriore discesa lungo la china del totalitarismo. Come ha già invocato Ismaylova: per salvare l’Azerbaijan dal nero destino che si sta drappeggiando è necessario il pugno duro da parte di USA e UE, senza chiudere gli occhi davanti alle violazioni dei diritti umani in cambio di accordi convenienti.