La luna di miele tra Erdoğan e Trump scricchiola e vacilla, se è davvero mai cominciata. I primi segnali li aveva mandati a luglio l’allora candidato dei repubblicani in un’intervista al New York Times. Era passata una settimana dal golpe fallito e Trump diceva di non vedere nulla di male negli arresti e nella repressione scatenata da Ankara. All’indomani della vittoria elettorale, Erdoğan aveva ricambiato mandando cerimoniosi saluti e auguri (rispolverando per l’occasione la richiesta di estradare Gulen). Poi due mesi di vuoto apparente finché, pochi giorni fa, il presidente turco annuncia di voler incontrare Trump al più presto perché le relazioni bilaterali “non sono affatto floride”.
Il nodo del Rojava
Il problema di Erdoğan si chiama Rojava, la striscia di territorio del nord della Siria sotto il controllo dei curdi. Curdi che Obama ha trasformato nella più importante pedina sul campo per sconfiggere l’Isis, snobbando una dopo l’altra richieste e proteste della Turchia. Nella questione siriana è quello l’unico nodo che interessa davvero a Erdoğan, ormai. Se gli Usa si rassegnano a lasciare Assad al potere, a scendere a patti con la Russia, troveranno Ankara già pronta. Il voltafaccia turco maturato negli ultimi mesi, quello da sponsor dei ribelli a partner dei russi nei negoziati di pace di Astana, è un dato acquisito. Ciò che resta da decidere è il peso che i curdi avranno nel futuro assetto della Siria.
Più armi per i curdi
Erdoğan sperava dagli Usa qualche segnale di discontinuità rispetto all’èra Obama. È successo l’opposto. Trump ha riconfermato Brett McGurk, l’inviato speciale per la lotta all’Isis della Casa Bianca messo lì dall’amministrazione precedente. McGurk ha ottimi rapporti con i curdi siriani e l’unico punto fermo sulla politica mediorientale messo finora da Trump è la priorità assegnata alla guerra allo Stato Islamico. Insieme, bastano questi due segnali per capire che le speranze di Erdoğan erano mal riposte.
E non è tutto qui. Gli Stati Uniti hanno aumentato gli aiuti militari ai curdi. Finora li avevano riforniti solo di armi leggere e munizioni, oltre a garantire il supporto aereo. Il 31 gennaio sono arrivati anche dei mezzi corazzati. Può sembrare cosa di poco conto ma non lo è, è un segnale forte e definitivo: gli Usa non torneranno sui propri passi. Certo non viene preso sottogamba dalle parti di Ankara, che teme che tutte quelle armi vengano poi usate in Turchia dal Pkk, “casa madre” delle Ypg dei curdi siriani.
L’incognita delle safe zone
Altro punto di attrito fra Turchia e Stati Uniti è l’idea di creare delle safe zone in Siria. Per anni è stata la richiesta di Erdoğan, che sperava di poter mettere un piede in Siria con l’appoggio di Washington e garantire ai ribelli una base operativa sicura per combattere contro Assad e alleati. Ma adesso la situazione è cambiata: l’esercito turco ha già passato il confine (proprio per bloccare l’avanzata dei curdi) e le relazioni con la Russia sono state ricucite. Più che inutili, però, queste ipotetiche safe zone rischiano di essere dannose per gli interessi turchi.
Trump non ha specificato nulla a proposito: delle safe zone per ora c’è solo il nome. Non è chiaro se e dove potrebbero essere localizzate. Il timore della Turchia è che una di queste sia proprio il Rojava. Se già i curdi reclamano il federalismo, e quindi più autonomia per i loro territori, istituire una safe zone lì significherebbe renderli di fatto autonomi da Damasco. Trump ha avanzato l’idea nella bozza di un ordine esecutivo (quello con cui ha impedito l’accesso ai cittadini di 7 stati di Medio Oriente e Nord Africa), ma nella versione definitiva non ce n’era più traccia. Delle safe zone però ha parlato di nuovo, qualche giorno più tardi, con Arabia Saudita e Emirati, segno che l’idea non è del tutto abbandonata. Per Erdoğan sarebbe una sconfitta cocente: il rischio è restare schiacciato tra le intransigenze degli Usa e i diktat della Russia, che non fa mistero dell’appoggio alle richieste di autonomia dei curdi.