L’attentato di Capodanno ad Istanbul non ha solo tolto la vita a decine di persone, ha anche sbattuto sugli schermi di casa nostra una regione sconosciuta ai più: l’Asia Centrale. Le autorità turche hanno individuato l’autore della strage prima in un kazako, poi in un kirghiso ed infine in un uzbeko, arrestando inoltre molte persone nel distretto della città chiamato Zeytinburnu, abitato per lo più da persone di origine centroasiatica. Ma esiste davvero una minaccia islamica proveniente dalle repubbliche dell’Asia Centrale? Una risposta che forse è inesistente, l’ennesimo spettro che si aggira per steppe e valli di quella regione.
Che esistano gruppi fondamentalisti islamici in Asia Centrale è innegabile, basti pensare al più famoso tra tutti ossia il Movimento Islamico dell’Uzbekistan, responsabile tra 1999 e 2000 di una serie di raids in Kirghizistan partendo dalle sue basi in Tagikistan, dove le gole quasi inaccessibili del paese erano un ottimo nascondiglio. Da allora nel mondo islamista centroasiatico è cambiato molto: il MIU è entrato nella galassia radicale che gravita in Siria dopo essere passato attraverso al-Qaeda (vera internazionale jihadista) e l’esplosione della galassia radicale afghana in una serie infinita di gruppi e grupposcoli.
Proprio al vicino Afghanistan bisogna infatti guardare per capire meglio il fondamentalismo islamico in Asia Centrale. Praticamente ignorato dai media, è ormai da tempo in corso uno scontro tra il radicalismo a carattere nazionale del movimento talebano e la globalizzazione della jihad sostenuta dallo Stato Islamico, una lotta che divide il fronte fondamentalista e che assume particolare valore in un’Asia Centrale percorsa da forti odi etnici. Resta tuttavia indubitabile che il ritorno dei combattenti dalla Siria, con il califfato che perde terreno, possa rivelarsi un grave problema di instabilità nelle repubbliche centroasiatiche.
Di fronte a ciò i governi della regione devono dare risposte chiare, oppure la scelta di utilizzare la minaccia del fondamentalismo islamico contro ogni nemico o per il controllo delle opposizioni politiche si rivelerà un arma assolutamente controproducente. In questi paesi la sicurezza è spesso la parola d’ordine con cui fermano politiche modernizzatrici, dichiarando che non esistono le condizioni per poter procedere con le riforme. In realtà proprio tali riforme, per lo più guidate da interessi personali, portano spesso cambiamenti sociali all’origine di sollevazioni popolari represse poi con la scusa proprio del pericolo fondamentalista.
Più che la povertà è lo stravolgimento dell’esistenza che potrebbe spingere molte persone in Asia Centrale verso le sirene islamiche, come ben evidenza il fatto che in molti casi la radicalizzazione avviene non nella terra d’origine ma durante l’emigrazione soprattutto in Russia, ossia quando la rete fondamentalista diventa un importante punto d’appoggio per ritrovare una propria identità collocandosi in negativo nella società coltivando, inutile negarlo, sogni di vendetta per chi ha umiliato. Una cittadinanza di serie b, che non significa per forza povertà, potrebbe quindi essere all’origine della militanza in gruppi radicali.
Strettamente collegato a ciò un falso mito legato all’islamismo in Asia Centrale, ossia quello dell’assenza di democrazia come condizione che favorisce le scelte jihadiste. Si dovrebbe invece parlare di mancanza di redistribuzione dei ruoli in società autocratiche chiuse in se stesse e rette da clan familiari che detengono un potere pressochè assoluto. La visione della pace connessa al progresso ed alla democrazia è prettamente occidentale, sovrapporla alle strutture sociali centroasiatiche è miope e forse anche un tantino arrogante. La democrazia è solo una delle mancate identità nell’Asia Centrale post-sovietica.