La Turchia è finita di nuovo nel mirino delle agenzie di rating internazionali. Stavolta però incassa un doppio colpo. Lo scorso 27 gennaio, a poche ore l’una dall’altra, prima Standard and Poor’s e poi Fitch hanno rispettivamente declassato il rating da BBB- a BB+ e l’outlook da “stabile” a “negativo”. La Turchia quindi scivola sempre più in basso, diventando “junk”, “spazzatura”.
Il rating è il metodo convenzionalmente utilizzato nel mondo della finanza per misurare il rischio dei titoli obbligazionari emessi da uno stato sovrano. Più è basso, più aumentano i fattori di rischio. Nella scala di valutazione delle agenzie di rating il valore massimo è rappresentato da AAA. Al di sotto della tripla B un paese è considerato “junk”. L’outlook è invece un giudizio sulle prospettive future di un rating; se è negativo e se persistono i fattori di debolezza significa che è possibile un ulteriore degradamento. Dunque, solo nubi nell’orizzonte della Turchia.
Già a luglio, dopo il fallito golpe, Moody’s e S&P avevano declassato il rating al di sotto dell’investment grade, l’indicatore con cui gli investitori istituzionali determinano l’affidabilità degli strumenti finanziari. Solitamente, è fissata come soglia limite la valutazione BBB. Rimaneva solo Fitch a dare credibilità alla Turchia di Erdogan. Almeno fino a pochi giorni fa. «Gli ultimi sviluppi politici e l’insicurezza nel Paese hanno indebolito l’economia e l’indipendenza delle istituzioni», ha dichiarato Fitch.
Conseguenze sugli investimenti
L’economia del Paese – uno dei più grandi del G20 – dipende fortemente dagli investimenti stranieri, sia per il finanziamento del deficit delle partite correnti che per il servizio del debito in valuta estera. Il declassamento del rating comporta un pagamento più alto dei prestiti accesi nei mercati internazionali, poiché il rischio sugli strumenti finanziari emessi dallo Stato è maggiore. Inoltre, con la continua svalutazione della moneta la questione diventa molto delicata.
Già lo scorso luglio, nel caso in cui il rating fosse stato classificato “spazzatura” da tutte e tre le agenzie americane, la banca d’affari statunitense JP Morgan aveva consigliato agli investitori di vendere 10 miliardi di dollari di obbligazioni sovrane e societarie turche. Erdogan, invece, per mantenere a galla il suo Paese ha necessità di attrarre ogni anno 200 miliardi di dollari.
La lira turca
Un modo per incentivare gli investitori potrebbe essere quello di alzare i tassi di interesse, ma l’istituto centrale turco ha deciso, a sorpresa, di mantenerli fermi all’8%, mentre era largamente atteso un rialzo. D’altronde Erdogan si era ufficialmente dichiarato “nemico dei tassi di interesse”; il suo desiderio è quello di rilanciare l’economia mantenendo basso il costo per l’accesso al credito.
Il mancato taglio dei tassi ha provocato, come conseguenza, un nuovo crollo del valore della lira turca che ha raggiunto i minimi storici nei confronti delle due principali valute mondiali, l’euro e il dollaro. Nel 2016 aveva già perso il 20% nei confronti del biglietto verde; in queste prime settimane del 2017 si è registrato un crollo dell’8,6%. Su tutto ciò pesa, inoltre, l’inflazione in continuo aumento.
La situazione di debolezza dell’economia turca risiede in parte nel rischio geopolitico: i numerosi attacchi terroristici impediscono la crescita e il tentativo di riformare la costituzione da parte di Erdogan, in chiave presidenzialista, inasprisce i vari conflitti interni. Ci sono poi anche dei fattori legati all’economia stessa; quali, ad esempio, l’inversione della tendenza al ribasso del prezzo del petrolio.
Foto: la borsa turca (fonte: Twitter)