Incredulità, paura, disgusto. Queste le reazioni degli iraniani in queste ore al decreto firmato ieri da Trump. (Ma anche la mia, che in quel Paese ho trascorso cinque anni straordinari della mia vita, e standoci molto bene). Un’umiliazione disumana, oltraggiosa, dettata unicamente dalla volontà di confermare in qualche modo i proclami farneticanti della campagna elettorale. Altro che post-verità, qui siamo alla post-politica, ridotta a ciancia da postribolo, quando non al puro turpiloquio. Un decreto che, anziché colpire i finanziatori del terrorismo internazionale – i Paesi del Golfo in primis – sbaglia clamorosamente mira. Colpisce chi – pur fra contraddizioni e compromessi – aveva cercato di proporre un ordine alternativo nella regione, l’Iran, e soprattutto chi patisce nel modo più drammatico le conseguenze di una guerra foraggiata in larga parte dall’esterno, l’Iraq e la Siria. Fra i sette Paesi musulmani interessati dallo stop all’immigrazione firmato ieri da Trump ci sono anche loro, insieme a Libia, Somalia, Sudan e Yemen. Una strategia che punisce le vittime anziché i carnefici, ammesso che la parola strategia si adatti ancora alle magnifiche sorti e progressive dell’epoca di Trump.
Incredulità, paura e disgusto, dicevamo. Chi non ha vissuto in Iran negli anni di Ahmadinejad non potrà mai capire la vergogna e la frustrazione – pane quotidiano di milioni di cittadini – di un Paese piegato dalle sanzioni e dipinto dai media e dalla politica internazionale come la fonte di tutti i mali. Chi non ha vissuto in Iran non potrà neppure capire come questa immagine sia lontana, anzi antitetica rispetto alla realtà. Una società naturalmente aperta all’Occidente, da sempre curiosa nei confronti delle altre culture, attenta a farci sentire a proprio agio, anche permettendoci in quanto stranieri di avere libertà che molti iraniani non si sono mai potuti permette.
Un Iran che aveva accolto come un trionfo prima l’ascesa di Rohani, poi l’accordo sul nucleare che sembrava porre fine a un isolamento ultradecennale. E quando dico un trionfo, intendo migliaia di persone scese a ballare in strada di notte dalla gioia. Letteralmente: io c’ero, nel primo dei due casi, e non oso neppure immaginare l’umiliazione e la frustrazione di chi, in quelle ore, aveva così tanto sperato, guardando agli USA e all’Europa come a un riferimento. Altro che lotta all’ISIS, se quello iraniano non fosse un popolo assai più civile e colto di tanti altri (incluso quello a stelle e strisce) da un atto come quello di Trump rischierebbero di nascere intere generazioni di terroristi. E invece la reazione di Rohani, come dei suoi concittadini, è stata assolutamente pacata. Il tutto mentre si separano intere famiglie, a cui viene in queste ore improvvisamente negato l’ingresso negli USA, anche se in possesso di visto o green card. Ingresso che sarà negato – a quanto riporta la stampa iraniana – anche a Asghar Farhadi, regista il cui film è candidato agli Oscar come migliore film straniero. Neanche il cinema e i suoi sogni ormai hanno più posto nell’America di Trump.
«The horror! The horror!», le parole pronunciate da Kurtz in Cuore di tenebra di Conrad mi martellano alle tempie mentre scrivo queste righe. Il tutto mentre un’agenzia batte che vengono fermati al Cairo prima dell’imbarco per New York sei iracheni e uno yemenita, e mentre iniziano ad affiorare le prime storie di traumi e separazioni nate da questo decreto. Chi non conosce l’umiliazione di vedersi rifiutato l’ingresso in un Paese non potrà capire. Il fatto che tutto questo sia propagandato come guerra al terrore rende ancora tutto più disgustoso e grottesco. Certo, Trump non è un nuovo Hitler, ma ciò non toglie che quanto avviene oggi non sia meno pericoloso. La politica mutilata, priva di ogni fondamento logico, e resa pure pulsione, emozione o rabbia, può condurre facilmente a una nuova catastrofe. Su quegli iraniani e musulmani improvvisamente privati della libertà di movimento pesa il macabro ricordo delle leggi razziali e della Shoah.