Quello che doveva essere l’anno della svolta per la riunificazione di Cipro rischia di diventare l’ennesimo “anno sabbatico”. Ancora non ci sono i presupposti per il superamento della divisione dell’isola, neppure dopo la nuova serie di colloqui tra i rappresentanti della Repubblica di Cipro e della Repubblica Turca di Cipro del Nord (riconosciuta unilateralmente dalla Turchia). I primi giorni del 2017 hanno confermato la fase di stallo che si trascina dal 1974. Negli ultimi mesi i rappresentanti delle due comunità e delle Nazioni Unite hanno parlato più volte di questi negoziati come di “un’ultima chance”. Ma alle buone intenzioni non sono seguiti i fatti.
Dopo una serie di colloqui bilaterali negli ultimi mesi, il 12 gennaio si è tenuta a Ginevra una conferenza che ha visto la presenza del segretario dell’Onu, Antonio Guterres, del presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker, del presidente cipriota Nikos Anastasiades e di quello turco-cipriota Mustafa Akinci, ma anche dei ministri degli Esteri di Grecia (Nikos Kotzias), Turchia (Mevlut Çavusoglu) e Gran Bretagna (Boris Johnson), le tre potenze garanti dell’isola secondo la Costituzione del 1960.
Un appuntamento importante quindi, dove proprio la Turchia ha mostrato le resistenze maggiori. La conferenza si è conclusa con un nulla di fatto, se non la magra consolazione di tenere in vita i colloqui, che sono ripresi il 18 gennaio, seguendo linee più tecniche che politiche. E pensare che nel 2004 il Piano Annan venne bocciato a causa del voto contrario dei greco-ciprioti, mentre i turco-ciprioti si erano espressi favorevolmente al referendum sulla riunificazione dell’isola. Oggi, più che dalla popolazione turco-cipriota, gli ostacoli per una Cipro unita in un unico stato federale arrivano direttamente da Ankara. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan non è disposto a fare sconti su nessun fronte, e l’omologo della comunità di Cipro del Nord, Akinci, si è adeguato alla linea dell’Akp.
La questione più spinosa è quella che riguarda la presenza dei circa 35.000 militari turchi nel Nord dell’isola. È impensabile prevedere uno stato unitario con un contingente così numeroso sul proprio territorio, ma Erdogan ha ribadito che i militari resteranno sull’isola.
Rinunciarvi costituirebbe una perdita di sovranità evidente. La Turchia vuole mantenere armi e caserme su un’isola ancora dipendente dal trattato di garanzia del 1960. La protezione dei cittadini turchi o turco-ciprioti sull’isola resta un punto sul quale Erdogan non è disposto a fare concessioni. Il mantenimento di un esercito costituisce uno strumento efficace per il controllo ordinario sulle abitazioni e sui territori della parte nord dell’isola, che Ankara sostiene dal punto di vista economico.
Sui territori la Turchia ha fatto delle concessioni e sarebbe disposta ad accontentarsi del 29% circa (anziché del 36%), ma qui gli ostacoli sono puramente economici. Chi dovrà occuparsi della ricostruzione o della manutenzione delle case dei turco-ciprioti? A quanto pare ci sono difficoltà ad accordarsi su questo punto.
I timori della Turchia inoltre si sono ingigantiti dopo l’ingresso di Cipro nell’Unione Europea del 2004. Se Nicosia è andata verso Bruxelles, in questi anni Ankara si è allontanata sempre più dal cuore dell’Europa, e teme che gli equilibri politici siano sfavorevoli. Erdogan e Akinci vorrebbero un parlamento equamente rappresentativo di greco-ciprioti e turco-ciprioti, nonché un’alternanza alla presidenza tra rappresentanti delle due comunità. Due punti che stridono con l’effettiva presenza di turco-ciprioti sul territorio, che rappresentano poco più del 20% della popolazione. A queste condizioni, la riunificazione di Cipro sembra ancora lontana.