IRAN: L’eredità di Rafsanjani e la maschera del riformismo

Una folla inaspettata ha salutato per l’ultima volta Hashemi Rafsanjani. Ai funerali dell’ex presidente iraniano, morto per un infarto l’8 gennaio, hanno partecipato più di due milioni di persone, accalcate nelle strade che portano all’università di Teheran fin dal primo mattino. Lì la guida suprema Khamenei ha guidato la preghiera funebre prima di accompagnare la salma al mausoleo di Khomeini, dov’è stata sepolta a fianco del padre della rivoluzione.

Apologia di un regime

La morte di una figura così importante per un regime – e l’Iran non ha fatto eccezione – si trasforma spesso in una celebrazione del regime stesso. Di fianco al feretro sono sfilati volti noti: dal presidente Rouhani, che piange un prezioso alleato, al sindaco di Teheran Qalibaf, probabile candidato alle prossime elezioni proprio contro Rouhani. Erano presenti anche i vertici dei Pasdaran, incluso il potente generale Soleimani che ha speso parole concilianti per il defunto.

Molti di loro erano acerrimi avversari di Rafsanjani, che è rimasto una figura centrale (e divisiva) in politica fino all’ultimo, a capo del Consiglio del Discernimento e consigliere di Khamenei. Così, mentre la generazione che ha fatto la rivoluzione invecchia e maturano i tempi per un fisiologico ricambio generazionale, il messaggio trasmesso dal regime è più o meno questo: coesione e continuità, nel solco degli ideali del ’79.

Braccialetti verdi

La realtà, però, racconta una versione diversa della storia, molto meno monolitica. Basta spostare l’attenzione sulla folla accorsa ai funerali per accorgersene. Molti i cori che hanno accomunato Rafsanjani a Khatami, l’altro leader riformista, anch’egli ex presidente, oggi tenuto sempre più ai margini della scena politica (pare abbia ricevuto il divieto di andare al funerale). Ma gli iraniani hanno approfittato di questo evento per tirare fuori anche quegli slogan che sembravano spariti dopo il 2009, l’anno delle proteste di piazza contro la rielezione di Ahmadinejad. E che la repressione durissima da parte del regime aveva sconsigliato di ripetere per lungo tempo.

Così sono stati scanditi cori a favore di Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, i leader dell’opposizione ancora oggi costretti agli arresti domiciliari, che avevano sfidato Ahmadinejad 8 anni fa (appoggiati da Rafsanjani). Erano i loro elettori i protagonisti di quella protesta – la più vasta da anni – che ha preso il nome di Onda Verde. E sono ritornati anche altri simboli di quella brevissima stagione: molti iraniani, il 10 gennaio, indossavano i braccialetti verdi.

I dubbi di Rouhani

Scene che ricordano quanto, in questi ultimi anni, Rafsanjani sia stato identificato dentro e fuori l’Iran come la figura di riferimento del blocco di orientamento moderato-riformista. Lo stesso Rouhani è considerato quasi una sua creatura, e con la sua morte sono in molti a chiedersi se l’attuale presidente riuscirà a sopravvivere (politicamente) senza una sponda così importante. D’altronde Rafsanjani era in grado, nel momento opportuno, di riscuotere un consenso trasversale, anche in molti ambienti più conservatori. Una risorsa indispensabile in un paese come l’Iran, dove la complessa architettura istituzionale presenta diversi passaggi obbligati in cui l’ultima parola spetta di fatto alla guida suprema.

Rafsanjani come simbolo. Ma di cosa?

Rafsanjani, però, poteva muoversi in questo modo perché non era – non lo è mai stato davvero – un simbolo di rottura, ma perché era profondamente organico al regime. Nella sua figura, una volta ripulita dall’etichetta semplificatrice di progressista, si vede bene quell’intreccio di potere economico e politico che è tipico anche dell’Iran rivoluzionario. Rafsanjani era uno degli uomini più influenti in politica e allo stesso tempo uno dei più ricchi del paese. Era riuscito a creare un vero e proprio impero economico con interessi nei settori più disparati, dal commercio dei pistacchi alle miniere di rame alle grandi opere infrastrutturali. Tanto era il potere accumulato dopo il ‘79, che ricevette il soprannome di ‘akbar shah’, il grande re. Con il ricordo dei Pahlavi ancora fresco non suonava proprio come un complimento.

Questo intreccio di poteri, d’altronde, è esattamente ciò che caratterizza i temuti Pasdaran, quelle Guardie della rivoluzione con cui Rafsanjani si è scontrato duramente per 40 anni e che rappresentano un altro grande polo di potere economico del paese. Al funerale gli hanno reso omaggio. Ma c’è da scommettere che ora approfitteranno di questo vuoto per mettere le mani su altri pezzi di Iran.

Chi è Lorenzo Marinone

Giornalista, è stato analista Medio Oriente e Nord Africa al Centro Studi Internazionali. Master in Peacekeeping and Security Studies a RomaTre. Per East Journal scrive di movimenti politici di estrema destra.

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