La centralità di Istanbul nell’opera di Orhan Pamuk è un dato evidente e indiscutibile, e non soltanto perché quasi tutti i suoi romanzi sono ambientati in questa città. Se la Costantinopoli imperiale non fosse stata il centro della civiltà ottomana – e quindi del potere che ne era espressione tangibile – le storie raccontante ne Il castello bianco e Il mio nome è rosso non sarebbero neppure concepibili, e al di fuori del complicato contesto culturale e sociale dell’odierna Istanbul, non lo sarebbero neanche i romanzi con ambientazione contemporanea.
Neppure Neve, unica opera di Pamuk ambientata lontano da Istanbul, costituisce una vera e propria eccezione. La storia qui raccontata si svolge a Kars, città di provincia nell’estremo est della Turchia, a ridosso del confine con l’Armenia. Tuttavia le origini del protagonista, borghese di Istanbul e non per caso proveniente dallo stesso quartiere di Orhan Pamuk, hanno un ruolo estremamente rilevante nella percezione della diversa realtà in cui si svolge il romanzo.
Questo non significa tuttavia che l’arte del grande scrittore turco sia riconducibile ad una dimensione locale e particolare. Anche se le storie raccontate da Pamuk sono indissolubilmente legate alla città in cui si svolgono, le tematiche che esse affrontano sono infatti universali. L’ambizione, la ricerca della felicità, la disillusione, il rapporto tra i sessi, la solitudine, l’amore e la morte: non si tratta soltanto degli argomenti tradizionalmente preferiti dagli scrittori, ma di esperienze comuni a tutti gli esseri umani in ogni epoca storica.
Istanbul è quindi, prima di ogni altra cosa, uno specchio dell’uomo e del mondo, che proprio incarnandosi in un particolare – come particolare è la vita di ognuno di noi – diventa rappresentazione dell’altrimenti indicibile universalità dell’esperienza umana.
Pamuk riesce a gestire questo gioco di prospettive tra l’universale e il particolare insistendo sull’eccezionalità del caso di Istanbul, città che per molte ragioni – la posizione geografica, le diverse civiltà che ne hanno segnato la storia e la cultura, gli scambi che ha intrattenuto nel corso dei secoli con i più diversi paesi, e soprattutto il ruolo di centro imperiale che ha rivestito per secoli – ha avuto un ruolo speciale nella storia dell’umanità.
Bisanzio, Nuova Roma, Costantinopoli, Istanbul: città dai mille nomi, sede di civiltà di portata universale come quella bizantina e quella ottomana, essa fu concepita per essere al centro del mondo, e per quasi due millenni, se non lo è stata per davvero, ci è mancato pochissimo perché lo fosse.
Una storia gloriosa come nessun’altra dunque, ma anche piena di ferite e lacerazioni. Come la fine violenta dell’impero bizantino e il sorgere della potenza ottomana, che ne riprendeva tuttavia la medesima idea imperiale sotto i vessilli di una nuova dinastia e di una diversa religione.
Ma la ferita più profonda, lo shock più grave, l’umiliazione più atroce, è storia relativamente recente per la città millenaria: la lenta agonia e la fine dell’impero ottomano. Dopo quasi duemila anni Istanbul non era più la capitale di un impero. Il mondo ottomano, con il suo caratteristico cosmopolitismo, spariva per lasciare spazio ad uno stato nazionale turco, con conseguenze drammatiche per l’identità dell’antica città, sconvolta da cambiamenti demografici senza precedenti. Come se non bastasse, il nuovo potere repubblicano, per sottolineare la cesura con il passato, poneva la sua capitale ad Ankara.
Istanbul ancora una volta vedeva l’affermazione di una nuova grande civiltà universale, quella dell’Occidente moderno. Ma questa volta le cose erano diverse. La città sul Bosforo non era più la splendida capitale, ma la decadente periferia di un mondo che aveva i suoi centri in luoghi lontani, oggetto di imitazione e meta di emigrazione da parte dei suoi abitanti. L’antica Costantinopoli, costruita con la missione di dominare il globo, era di fatto ridotta al rango di città di provincia, per quanto bellissima e immensa.
Punto di incontro ideale tra Oriente ed Occidente, il Bosforo apre quindi prospettive che per un verso rendono orgoglioso lo scrittore, ma per un altro lo inquietano e lo turbano profondamente. Da una parte c’è l’immagine di una capitale imperiale vincente, centro di una civiltà in grado come nessun’altra di sintetizzare nella sua cultura aspetti orientali e occidentali (Ad Allah appartengono Oriente ed Occidente, recita una Sura coranica posta in esergo a Il mio nome è Rosso, e questa frase potrebbe essere assunta come sintesi di tutta la civiltà ottomana). Dall’altra parte c’è però la realtà di una nazione al confine tra due mondi che vengono oggi rappresentati come in conflitto tra di loro, costretta per il suo semplice fatto di trovarsi sul confine ad essere “periferia” di entrambi i mondi.
Alla paura di essere periferici e marginali si associa la relazione ambigua che Pamuk intrattiene con la cultura occidentale e con la rivoluzione kemalista che l’ha definitivamente imposta in Turchia. Lo scrittore avverte la necessità di integrarsi appieno nella civiltà europea, ma dall’altra sente la paura di sentirsi giudicato inadatto e venirne escluso, o al contrario di esserne assimilato a tal punto da perdere del tutto la propria identità nazionale e locale. La situazione della Turchia come paese “tra Oriente e Occidente”, perfettamente esemplificato dalla posizione geografica di Istanbul, viene vissuta in modo problematico e spesso angoscioso da Pamuk, diviso tra la speranza e la paura, tra l’orgoglio e la sensazione di inadeguatezza.
In un’intervista rilasciata ad Euronews, lo scrittore sottolinea come il problema dell’identità, centrale non solo nei suoi romanzi, ma in tutto il discorso pubblico e intellettuale nel mondo a noi contemporaneo, non è assolutamente una novità per la Turchia, che proprio in virtù della particolare eredità lasciatale dalla geografia e dalla storia, da molto tempo si interroga a più livelli su questo importante tema. Il confronto tra Oriente e Occidente, la possibilità di far convivere Islam con la democrazia e con la cultura dei paesi europei, il destino dei rapporti tra le diverse civiltà: se la Turchia non è riuscita a dare risposte definitive a questi dilemmi, certamente ha un’esperienza di riflessione superiore a qualunque altro paese, e per questo ha molto da insegnare al resto d’Europa.
Ecco allora che Istanbul diventa una grande metafora del mondo contemporaneo, e nella visione di Pamuk ritorna ad essere centrale come simbolo dello scontro e della sintesi delle diverse componenti della nostra era globalizzata.
Pamuk non si limita dunque a raccontare e descrivere un luogo eccezionale e le storie dei suoi abitanti, ma ha la pretesa di trasformare la sua città natale in uno specchio dell’uomo e del mondo, dove l’umanità odierna possa riconoscersi e riflettere su sé stessa e sul proprio destino, e a chi scrive sembra che egli sia riuscito nel suo intento.