Dal 1 gennaio 2017, insegnanti, professori e direttori scolastici in Lettonia potranno essere licenziati nel caso in cui manifestino comportamenti o prendano iniziative “sleali” nei confronti dello stato e della Costituzione. E’ il risultato di alcuni emendamenti alla legge sull’educazione promulgati dal presidente Vejonis lo scorso 2 dicembre.
La “legge sulla lealtà” è stata proposta dai deputati del partito di centro-destra Unità (Vienotiba), tra cui il ministro dell’istruzione Šadurskis, e approvata rapidamente dalla Saeima insieme alla legge di bilancio. La nuova legge prevede ugualmente l’interruzione dei finanziamenti pubblici per scuole e progetti giudicati contrari alla fedeltà verso la nazione.
Chi minaccia la nazione?
Secondo Šadurskis lo scopo della nuova legge è di “proteggere l’interesse pubblico e nazionale, la democrazia, la sicurezza e la crescita del paese da attività illegali condotte da insegnanti e direttori scolastici sleali verso lo stato”, incluse influenze provenienti da “nazionalisti squilibrati, fanatici religiosi o agenti del Cremlino”.
Per alcuni deputati del partito Unità un voto contrario agli emendamenti sarebbe equivalso a una dimostrazione di sostegno nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. Ma nel partito c’è anche chi considera che gli emendamenti seguano semplicemente la scia della legge sull’educazione “morale” approvata ad aprile 2015, che metteva al centro del sistema scolastico i valori della famiglia tradizionale. Šadurskis ha però dichiarato che la “legge sulla lealtà” è da considerarsi una misura preventiva e che le probabilità che essa venga applicata a casi concreti sono rare.
Cittadini “sleali” in Lettonia: qualche precedente
Al tempo della prima repubblica lettone gli insegnanti delle scuole bielorusse nel Latgale furono oggetto di una campagna di discredito e accusati di slealtà nei confronti dello stato. Nel 1925, sospettati di far parte di un’organizzazione nazionalista bielorussa e di aver propagandato idee separatiste tra gli alunni, gli insegnanti furono messi sotto processo. Alla fine vennero assolti, sebbene secondo il tribunale “rimanessero dei dubbi sull’innocenza del resto della popolazione bielorussa in Lettonia”.
Episodi più contemporanei dimostrano che la retorica non è cambiata: la “lealtà alla nazione” è un argomento spesso evocato in relazione alle leggi sulla cittadinanza e sulla naturalizzazione. Un caso esemplare ha coinvolto nel 2004 Jurij Petropavlovskij, non-cittadino russofono, al quale la cittadinanza fu negata nonostante egli presentasse tutti i requisiti per ottenerla, poiché i suoi comportamenti non provavano la sua fedeltà allo stato. Attivista del partito ZaPCheL (oggi Unione russa di Lettonia), Petropavlovskij aveva partecipato alle proteste contro la riforma dell’educazione introdotta nel 2004 nelle scuole della minoranza.
Come si misura la “lealtà”?
In un paese tradizionalmente diviso su questioni di ordine storico, sul lascito dell’epoca sovietica e sul rapporto alla lingua e all’identità nazionale, una legge che prescrive la “lealtà” allo stato è sintomo – più che della volontà di proteggere la sicurezza nazionale – di un approccio politico che ancora rifiuta di superare una certa diffidenza nei confronti di parte della popolazione.
Rimane da capire su base di quali criteri ufficiali gli organi statali applicheranno la nuova legge e sapranno giudicare qualcosa di così astratto e, allo stesso tempo, altamente parziale come la “lealtà alla nazione”. E anche se nessuno dovesse farne concretamente le spese, c’è il rischio che ne risentano la libertà d’insegnamento e di opinione, e che si creino controversie in grado di polarizzare ulteriormente la società lettone.
Foto: The Baltic Times