BOSNIA: Israele contribuì al genocidio di Srebrenica

Da BELGRADO – Il ministero della Difesa di Israele inviò armi alle truppe serbe e serbo-bosniache durante gli anni della guerra in Bosnia, nonostante l’embargo posto dalle Nazioni Unite a tutta la ex Jugoslavia. E’ quanto si legge in una petizione avanzata alla Corte Suprema di Israele da due attivisti dei diritti umani israeliani – l’avvocato Itay Mack e il professore Yair Oron – con la quale chiedono i dettagli circa le esportazioni di armi di Israele verso una zona di guerra in cui nel luglio del 1995 venne compiuto il genocidio di Srebrenica ad opera delle forze del generale Ratko Mladić, attualmente a processo all’Aja per crimini contro l’umanità e genocidio.

Come riportato dal blogger israeliano  che scrive sotto lo pseudonimo di John Brown, poi rilanciato sul magazine +972, i due attivisti hanno presentato, tra gli altri documenti, anche il diario personale dello stesso Ratko Mladić, nel quale “si menzionano esplicitamente i legami del commercio di armi esistenti tra la Serbia ed Israele”. Dal canto suo, la Corte Suprema d’Israele ha rigettato la richiesta di accesso agli atti in quanto “rendere pubblico un coinvolgimento di Israele nel genocidio danneggerebbe le relazioni internazionali del paese in maniera sproporzionata rispetto al pubblico interesse nel pubblicare tale informazione”. La petizione dei due attivisti e la risposta con cui la Corte Suprema l’ha rigettata sembrano rappresentare un riconoscimento implicito del coinvolgimento di Israele nel genocidio di Srebrenica.

I documenti presentati dall’avvocato e dal professore dimostrano come il commercio d’armi sia avvenuto dopo l’imposizione dell’embargo del settembre del 1991. Tra questi, il libro pubblicato nel 1992 dalla ex capo del gabinetto del ministero della difesa serbo Dobrila Gajić Glišić, dal titolo “L’Esercito Serbo”, poi costatole il posto di lavoro, nel quale si legge “sicuramente, uno degli accordi maggiori fu siglato da Jezdimir Vasiljević in Israele nell’ottobre del 1991. Per ovvie ragioni, all’epoca i dettagli di tale accordo non vennero resi pubblici. Fu un accordo difficile e complicato ma fu portato a termine con successo.”

Nel 1992, fu invece la volta di una delegazione israeliana del ministero della difesa, che si recò in visita a Belgrado, dove venne concluso un accordo per il rifornimento di armamenti destinati al bombardamento. Inoltre, nel diario di Ratko Mladić si legge: “gli israeliani ci hanno proposto una lotta congiunta contro gli estremisti islamici. Ci hanno offerto anche di addestrare i nostri uomini in Grecia e di rifornirci di fucili di precisione da cecchino”. Stando ai report, un altro accordo commerciale venne siglato nel 1995 con la connivenza del governo israeliano.

Non va inoltre dimenticato che diverse organizzazioni umanitarie denunciarono l’addestramento israeliano di soldati serbi e che la vendita di armi funse da contropartita per consentire agli ebrei di Sarajevo di lasciare la città sotto assedio.

Come sottolineato nella petizione, da un lato questi accordi segreti metterebbero in luce l’ipocrisia di Israele che invece pubblicamente ha sempre denunciato il genocidio, come dimostrato nel 2013 con l’estradizione in Bosnia–Erzegovina di Aleksandar Cvetković, accusato di aver partecipato al massacro di Srebrenica.

Dall’altro lato, invece, il rifiuto della Corte Suprema di rivelare i dettagli circa la vendita di armi – giustificato dalla paura di danneggiare le relazioni internazionali del paese – dimostra come l’interesse dello Stato israeliano prevalga anche sul senso di giustizia e renda i giudici complici.

Questa considerazione rende particolarmente difficile la posizione di Israele, ovvero il paese nato sulle ceneri della Shoà e che per perseguire i crimini di genocidio non ebbe alcun riguardo nei confronti della sovranità argentina, quando rapì ed estradò il funzionario delle SS Adolf Eichmann, poi condannato a morte nel 1962 da una corte israeliana.

Le relazioni privilegiate tra Israele e la Serbia sono proseguite anche nel dopoguerra. Lo ricordano le singolari posizioni del direttore della sede di Gerusalemme del Simon Wiesenthal Centre (SWC), Efraim Zuroff, che ha sempre negato che quello di Srebrenica sia un genocidio – nonostante le pronunce di due diverse corti internazionali – e che, in ogni caso, sia assurdo metterlo sullo stesso piano della Shoà. Una posizione, isolata tra le voci ebraiche su Srebrenica e all’interno dello stesso SWC, che ricade all’interno della visione della Shoà come genocidio unico ed incomparabile ad ogni altro.

Diventa comprensibile, allora, perché sia così difficile per le istituzioni di Israele decidere di desecretare gli atti di ciò che è successo ormai più di vent’anni fa. Una eventuale verità storica che stabilisca un grado di collaborazione al compimento di un altro genocidio sarebbe un grave colpo alla legittimità internazionale dello stato di Israele, fondato sulle ceneri della Shoà. Ragione per cui per arrivare ad una verità storica sulla questione dovrà passare ancora molto tempo.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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