IRAN: La solitudine e il carcere del regista Keywan Karimi

Un anno di carcere e 223 frustate: è l’esito – in numeri – della vicenda giudiziaria di cui Keywan Karimi è protagonista. Nato in Iran nel 1985, di professione regista. Un ruolo e un mestiere ingrati nel suo Paese, dove la censura post khomeinista continua, senza troppa discrezione, a imbavagliare intellettuali e attivisti invisi al regime.

Prologo

La conferma dell’arresto è avvenuta solo dieci giorni fa, ma il regista ha iniziato a scontare la sua pena il 24 novembre, come reso noto dalla sua casa di produzione francese Les Films de l’Apres-Midi (con cui uscirà l’ultimo film, Drum). La vicenda giudiziaria inizia nel 2013, quando agenti di polizia senza mandato irrompono in casa del regista, arrestando l’artista e sequestrando supporti esterni di archiviazione dati e computer. Dodici giorni dopo viene rilasciato su cauzione, ma è troppo tardi: l’inchiesta è avviata. La perquisizione sui supporti informatici conferma le accuse: offesa alle istituzioni iraniane. In un hard disk viene trovato un video musicale incompiuto e un documentario dal titolo Writing on city  in cui si parla dell’uso dei graffiti come mezzo di comunicazione politica dalla rivoluzione islamica del 1979 fino alla rielezione di Mahmoud Ahmadinejad del 2009.

La produzione artistica di Karimi è conosciuta all’estero grazie a L’avventura di una coppia sposata: un bianco e nero minimalista ispirato a Italo Calvino. Un altro lavoro che ha contribuito a fare di Karimi un regista apprezzato, ma spesso contestato, è il cortometraggio Broken Border, in cui racconta il contrabbando di gasolio verso il Kurdistan iracheno attraverso i monti Zagros. Nel corto, un insegnante chiede ai suoi alunni: «Cos’è una frontiera?» Uno di loro risponde: «Un posto attraverso il quale si contrabbanda merce».

La solitudine di Karimi

Al Manifesto, Karimi ha dichiarato di essere preoccupato per le frustate, più che per la lunga detenzione: «All’idea di vivere per un anno in prigione mi ci posso abituare, ma le frustate mi fanno paura. Non so che fare». «Non capisco perché la gente non parla del mio caso. Per Panahi si sono mobilitati tutti. Io sono solo». Di certo, pur non volendo essere una giustificazione per il silenzio colpevole, le sue origini non lo aiutano. E lui lo sa bene: «Temo che il mio essere curdo pesi molto sulla mia situazione». I curdi, infatti, sono cittadini di serie B, in Iran; subiscono continue discriminazioni, nonostante la costituzione del Paese protegga le minoranze. Il Kurdistan iraniano resta una delle regioni meno sviluppate, e la massiccia presenza di curdi nelle facoltà del Paese indica la volontà di cambiare la propria condizione grazie allo studio e alla cultura, invece che con le armi, come spesso sostenuto dai partiti al governo.

#FreeArtists

In favore dell’annullamento della condanna – inizialmente di 6 anni, ridotti a 1 dopo il processo d’appello – si erano mobilitati l’associazione 100 autori, che aveva lanciato una raccolta di firme; e Amnesty International. La campagna #FreeArtists chiede all’Iran il rilascio senza condizioni degli intellettuali detenuti nel carcere di Evin, quello destinato ai prigionieri politici. Come Karimi, anche i fratelli Rajabian – Mehdi musicista e Hossein regista – scontano una pena detentiva di tre anni per «attività audiovisive illegali». Un’accusa che lascia spazio a molti dubbi, viste le modalità del processo. Dal 28 ottobre 2016, i due hanno iniziato lo sciopero della fame per protestare contro la detenzione.

«Esprimere se stessi attraverso l’arte non è un crimine. I Rajabian sono prigionieri di coscienza che non dovrebbero essere costretti a spendere un solo minuto dietro le sbarre». – ha dichiarato Philip Luther, direttore ricerca e advocacy di Amnesty International per il M.O. e Nord Africa – «La loro prigionia è un altro chiodo alla bara per la libertà di espressione in Iran».

Chi è Francesca del Vecchio

Classe 1987, laureata in Lingue e Letterature Straniere e in Studi Arabo-Islamici, con una tesi sull’Islam Politico in Iran. Vive a Milano (ma è nata a Benevento) dove “prova” a fare la giornalista. Collabora per alcune testate come Il Manifesto, Prima Comunicazione e D di Repubblica. Per East Journal si occupa di Medio Oriente, in particolare di Iran.

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