BALCANI: Perché la Serbia è il paese più stabile della regione

Da BELGRADO – Negli ultimi anni la regione balcanica è passata attraverso momenti di grande instabilità, caratterizzata da crisi politiche, ritorno di questioni nazionali e contese territoriali, nonché problematiche in ambito internazionale. Su tutti, però, la Serbia si è dimostrata di essere il paese più stabile, sia per quanto riguarda la politica interna sia per quanto riguarda le questioni di politica estera.

Gli altri della regione

Gli ultimi due anni sono stati caratterizzati dalle crisi di governo in Macedonia e in Croazia. Nel primo caso, ci sono state enormi proteste di piazza contro il governo Gruevski, accusato di uno scandalo intercettazioni e in generale di essere al vertice di un sistema nel quale il suo partito, il VMRO-DPMNE, sembra controllare ampie fette della società macedone. Solo grazie alla mediazione dell’UE si è arrivati ad una soluzione parziale della crisi e a dicembre si terranno le elezioni anticipate. Nel caso della Croazia, il governo nato ad inizio 2016 grazie alla coalizione HDZ-Most è entrato in crisi dopo pochi mesi a causa di un’accusa di conflitto di interessi nei confronti del vicepremier Tomislav Karamarko, all’interno della più ampia questione della disputa internazionale tra la compagnia di stato ungherese MOL e la croata INA. La crisi si è risolta con lo scioglimento del Sabor e con il ritorno alle urne lo scorso 11 settembre, che ha però riconfermato la stessa coalizione.

Dal canto suo, la Bosnia-Erzegovina ha dato prova della sua decennale instabilità interna dovuta al persistere della questione nazionale in seno alle sue istituzioni. In particolare, tra fine settembre ed inizio ottobre, prima la Republika Srpska ha tenuto un referendum per sancire la festa nazionale del 9 gennaio, nonostante la corte costituzionale di Sarajevo e la comunità internazionale avessero dato indicazioni circa il mancato rispetto dell’uguaglianza tra i popoli costituenti della Bosnia-Erzegovina; poi, una settimana più tardi, le elezioni amministrative hanno sostanzialmente riconfermato il dominio dei partiti nazionalisti in entrambe le entità. Nel mezzo, la decisione della Commissione europea di dare il via libera al processo di candidatura per l’adesione all’UE, che conferma l’aspetto bifronte della situazione bosniaca: da un lato la prospettiva di integrazione nell’UE, dall’altro l’impossibilità delle istituzioni di emanciparsi dagli stessi problemi che causarono la guerra.

In Montenegro, invece, si sono da poco tenute le elezioni parlamentari che hanno riconfermato la vittoria del partito di Djukanovic, per quanto questi si sia al momento allontanato dalla scena politica del paese (per la terza volta negli ultimi dieci anni). Ma quel che preoccupa maggiormente è la probabile ingerenza straniera negli affari montenegrini, in quanto pare che il tentato colpo di stato organizzato il giorno delle elezioni sia stato ordito da un gruppo di nazionalisti russi, con l’obiettivo di destabilizzare il paese e il suo processo di adesione alla NATO. Al momento, infatti, il Montenegro è l’unico paese con sbocco sul Mediterraneo a non far parte dell’alleanza atlantica.

La stabilità di Belgrado

La Serbia, invece, non presenta nessuno dei problemi che affliggono gli altri paesi della regione. A livello politico, sembrano lontani anni luce i momenti di instabilità di fine anni ’90 ed inizio 2000. Il governo di Aleksandar Vučić, al suo secondo mandato consecutivo, ha costituito un esecutivo che ha saputo raccogliere più consensi di quanto non fosse riuscito Slobodan Milošević, per lo più grazie all’incapacità dell’opposizione di costruire un fronte comune, nonché per le abilità dello stesso Vučić di controllare media e organi di informazione. Tuttavia, è proprio grazie a questo governo che il paese sembra aver raggiunto una certa stabilità anche a livello internazionale.

Anche se la questione del Kosovo potrebbe sembrare un elemento di instabilità per Belgrado, di fatto questo governo ha neutralizzato le problematiche provenienti da questa regione. L’Accordo di Bruxelles siglato nel 2013 è un riconoscimento implicito non tanto dell’indipendenza statale kosovara, ma piuttosto del suo sistema politico. In esso si prevede sì la creazione di istituzioni a tutela e rappresentanza degli interessi serbi, ma le stesse si vengono a costituire in seguito alle elezioni locali, il che equivale ad un incentivo per il riconoscimento da parte degli stessi elettori serbi della regione dell’autonomia del sistema politico del Kosovo. Allo stesso tempo, però, il governo dei progressisti non rinuncia alla retorica di stampo nazionalista che rivendica la paternità sulla regione, di modo da non disilludere quella parte dell’elettorato ancora affezionato a questa questione.

Questo atteggiamento ha quindi ricadute benefiche nel processo di adesione all’UE, considerato come primo obiettivo in politica estera. I paesi dell’Unione Europea già rappresentano oltre il 50% del volume degli scambi commerciali della Serbia, facendo dell’UE un partner commerciale tanto predominante quanto essenziale. Allo stesso tempo, però, Belgrado non rinuncia all’alleanza politica con la Russia. Più che un’oscillazione tra Mosca e Bruxelles, si tratta della politica del tenere un piede in due scarpe.

Questo comportamento non rappresenta un elemento di instabilità ma, tutt’altro, permette alla Serbia di giocare un ruolo determinante. In qualità di maggiore paese della regione a non essere membro NATO, la Serbia può sfruttare la sua posizione come merce di scambio nei confronti della Russia, da sempre interessata a mantenere una certa influenza sulla penisola balcanica. Dal canto suo, invece, l’UE è soddisfatta di Aleksandar Vučić, soprattutto per il suo programma di privatizzazioni con il quale il paese sta svendendo le proprie risorse industriali ai grandi colossi multinazionali. In altre parole, questo governo ha avuto il merito di essere a garanzia del rispetto degli accordi presi con le istituzioni internazionali, in primis il Fondo Monetario Internazionale, arbitro indiscusso in materia economica, tanto da avallare la richiesta del primo ministro di aumentare gli stipendi e le pensioni dei cittadini serbi.

In conclusione, mentre la maggior parte dei paesi della regione sembra legata ai vecchi problemi degli ultimi vent’anni, la stabilità di Belgrado sembra il frutto di compromessi tanto efficaci quanto discutibili: la stabilità a livello governativo va a discapito del pluralismo politico; la stabilità economica è garantita dall’erosione della sovranità monetaria; mentre la stabilità a livello internazionale è mero doppiogiochismo. Tuttavia, questa situazione riflette la realpolitik necessaria per la sopravvivenza dell’intera regione, la quale oggi non ha che da imparare dalla Serbia il metodo per non dispiacere a nessuno a livello internazionale e per trarne vantaggio in politica interna.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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