A inizio novembre più di 150 migranti hanno lasciato Belgrado per raggiungere a piedi il confine con la Croazia, con la speranza di entrare in Unione Europea. La rotta balcanica, dichiarata chiusa lo scorso marzo, continua a essere attraversata da migliaia di persone in fuga da guerre e fame.
La terza March of Hope in pochi mesi
Nella notte tra il 10 e l’11 novembre, la polizia serba sgombera uno dei magazzini nei pressi della stazione di Belgrado, in cui più di 700 migranti avevano trovato rifugio. Lo scopo dell’operazione è allontanare i migranti dalla capitale e trasferirli al confine con la Macedonia, a Preševo, da dove avvengono da mesi espulsioni di dubbia regolarità. Mentre molte persone decidono di protestare, circa 150 migranti scelgono di provare a raggiungere autonomamente il confine con la Croazia. La March of Hope, come è stata definita, prosegue per più di 120 kilometri e termina dopo qualche giorno alle porte dell’Unione Europea, nei pressi di Šid, confine serbo-croato. Nel frattempo, Vlaho Orepić, ministro dell’interno della Croazia, fa sapere che nessun migrante attraverserà illegalmente il confine. Dopo una notte di attesa e di scontri con la polizia serba, i migranti, costretti ad interrompere la marcia, vengono ricondotti a Belgrado.
Questa verso la Croazia è la terza marcia intrapresa dai migranti presenti nel territorio serbo nel tentativo di raggiungere l’Unione Europea. Nei due casi precedenti era stato raggiunto il confine con l’Ungheria, dove alcune persone sono ancora oggi in attesa di entrare nel paese.
La Serbia, cul-de-sac della rotta balcanica
Le numerose proteste organizzate dai migranti presenti a Belgrado e dalle organizzazioni locali dimostrano lo stato emergenziale in cui si trova il sistema d’accoglienza serbo. Ufficialmente più di 6.000 migranti (10.000 secondo le Ong del territorio) sono infatti rimasti bloccati nel paese al momento della chiusura dei confini di Austria, Ungheria, Croazia e Slovenia. I campi di accoglienza sono sovraffollati e molti migranti denunciano violenze da parte della polizia. Negli ultimi mesi la situazione si è ulteriormente deteriorata: le autorità serbe hanno posto fine a diverse iniziative promosse da volontari e attivisti belgradesi, che dal 2015 si sono impegnati per soccorrere e sostenere i migranti accampati nella capitale. Allo stesso tempo, non si sono fermati gli arrivi nel paese: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), sono circa 150 le persone che ogni giorno attraversano i confini con la Bulgaria e la Macedonia.
La rotta balcanica esiste ancora
Lo scorso marzo veniva ufficialmente decretata la chiusura della rotta balcanica e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk dichiarava che nessun migrante avrebbe più attraversato i Balcani per arrivare in Europa. Gli avvenimenti degli ultimi mesi sconfessano la previsione di Tusk: per quanto fortemente ridimensionata, la rotta balcanica esiste ancora, il flusso di migranti non si arresta. Secondo le autorità tedesche, almeno 77.000 persone sono infatti rimaste bloccate nella regione al momento della chiusura delle frontiere. Inoltre, a queste è necessario aggiungere il numero crescente di migranti che riescono illegalmente ad attraversare i confini. Contemporaneamente, le politiche adottate da diversi stati dell’Unione Europea, stanno causando il collasso del sistema di accoglienza in numerosi paesi dell’area balcanica. L’Austria ha infatti deciso di rispedire in Croazia la gran parte dei migranti arrivati lo scorso anno, mentre la chiusura dei confini ungheresi sta trasformando la Serbia in una nuova Idomeni alle porte d’Europa.
Foto: REUTERS/Marko Djurica
Questo articolo è frutto della collaborazione con MAiA Mirees Alumni International Association. Le analisi dell’autrice sono pubblicate anche su PECOB, Università di Bologna