Ha avuto grande eco a inizio novembre la lettera dell’attivista russo Il’dar Dadin dalla colonia penintenziaria in cui denunciava le torture subite. L’uomo è condannato a 2 anni e mezzo per organizzazione di manifestazioni senza permesso: la prima nel 2013 a favore della comunità LGBT; quattro nel 2014 in difesa delle opposizioni, dei manifestanti di piazza Bolotnaja, contro il governo e pro-Maidan; l’ultima nel 2015 a favore di Aleksej Naval’nyj. Dadin ha ora potuto ottenere un incontro con un rappresentante del Consiglio per i Diritti Umani della Federazione Russa, Igor’ Čikov; il funzionario, giunto in Carelia, si è stupito di non trovarvi il capo della colonia Kossiev – ufficialmente in ferie, a quanto risulta – e di non aver il permesso (sancito peraltro dalla legge) di utilizzare registratori nei colloqui con Dadin.
La condanna dell’attivista non è nuova alla società russa e nemmeno forse la più eclatante; essa rientra appieno nella logica governativa di Mosca che punisce in modo esemplare chi si oppone, con l’obiettivo di intimorire giovani e possibili manifestanti. La lezione da impartire non è solo quella di non protestare, ma anche quella di non contare sulla “legge” quando questa dovrebbe essere chiamata a difendere il cittadino. Modello chiave di questa linea repressiva è stato il caso di piazza Bolotnaja.
Le repressioni di Piazza Bolotnaja
All’indomani dei disordini del 6 maggio 2012 vennero fermate 34 persone: da allora 14 hanno già scontato la pena, 6 si trovano ancora in carcere, 12 hanno ricevuto l’amnistia e 2 la sospensione della pena. Alcuni dei processi vennero portati avanti anche in assenza di reali prove di violenza contro le forze dell’ordine; in un caso, addirittura, il poliziotto stesso si rifiutò di testimoniare. Al contrario, nessun membro della polizia subì allora processi per lesioni e pestaggi. La Corte Europea dei Diritti Umani il 5 gennaio 2016 ha riconosciuto la repressione come una violazione dei diritti dei cittadini russi.
Alcuni dei condannati che hanno già scontato la pena e sono ora “liberi”, come Aleksej Polichovič e Andrej Barabanov, dichiarano inoltre di ricevere tuttora periodicamente visite a casa da parte della polizia. “Prevenzione all’estremismo” la definiscono le autorità.
Giovani attivisti crescono. Nonostante le repressioni
Il 27 ottobre scorso, dopo 3 anni e mezzo di reclusione, è uscito di prigione uno degli organizzatori di piazza Bolotnaja, Aleksej Gaskarov. Ai giornalisti ha dichiarato: “Non penso che quei valori che declamavamo si possano fermare. Non bisogna temere. Non gli è riuscito di ottenere quello che volevano”. E visto l’attivismo sia palese che silenzioso che continua a svilupparsi in Russia soprattutto tra i giovani, seppur ancora in piccoli numeri, Gaskarov sembrerebbe non sbagliare. Per quanto, tuttavia, la linea repressiva governativa non si faccia attendere nemmeno a scuola.
L’8 maggio 2016 uno dei giovani militanti del partito PARNAS, Michail Konev, dichiarava di esser stato “rapito” senza alcun preavviso dall’università e portato in un campo militare per ottemperare all’obbligo di leva (da cui invece doveva essere esonerato per studio). Alcuni giovani attivisti sono stati esclusi o allontanati senza spiegazione dagli istituti; altri hanno ricevuto fastidiose perquisizioni, come Michail Roskin e Natal’ja Grjaznevič, membri del movimento “Russia Aperta” di Chodorkovskij. La studentessa ha infatti denunciato nel dicembre 2015 il furto dalla sua camera non solo di documenti del partito, ma anche del computer personale, del telefono, delle carte di credito e contanti. Le autorità hanno dichiarato tuttavia che la perquisizione e il sequestro rientravano nelle indagini del caso YUKOS, secondo il quale Chodorkovskij venne condannato nel 2003 per frode.