E’ arrivata nel Mediterraneo l’ammiraglia della flotta russa, la portaerei Admiral Kuznetsov. Per molti media occidentali si tratta di un inutile show the force, poiché la nave è malmessa e non inciderà più di tanto sulle operazioni in corso in Siria. Eppure, il suo arrivo sarà la “ciliegina” sulla torta geopolitica che Mosca ha cucinato in Medio Oriente.
Un nuovo interventismo
Infatti, se proviamo a fare un salto indietro di anche solo cinque o sei anni, scopriamo che prima delle cosiddette primavere arabe, presenza e influenza russe in Medio Oriente erano minime, e già da decenni. Asso pigliatutto erano invece gli Stati Uniti che, nonostante gli insuccessi in Afghanistan e Iraq, potevano comunque contare su solide alleanze con Turchia, Egitto, Arabia Saudita e Israele.
Poi qualcosa è cambiato, e la Russia ha progressivamente assunto un atteggiamento interventista. Il motivo di questa svolta è però da cercare fuori dal Medio Oriente, e da interpretare con una prospettiva di ampio respiro. Con una forzatura, però molto chiarificatrice, si potrebbe semplificare la lettura dei fatti dicendo che Mosca ha rimesso piede in Medio Oriente a causa della crisi in Ucraina, scoppiata nel 2014. Infatti, l’intervento russo in Crimea e nelle aree russofone ha portato ad un isolamento politico ed economico di Mosca, che cerca di reagire aprendo a Pechino, rinverdendo il suo status di grande potenza e creandosi nuovi alleati.
E se in est Europa, con il limes rappresentato da NATO e Unione Europea, lo spazio di manovra politico-diplomatico è ridottissimo, invece in Medio Oriente Mosca ha trovato un terreno estremamente fertile dove mettere in difficoltà una Washington peraltro già in grave affanno.
Verso uno “spazio di decisione”
La questione è che, in Medio Oriente, il confronto russo-americano si intreccia con una serie di dinamiche regionali, come la contrapposizione politica, ideologica e petrolifera tra Riad e Teheran – con relativi alleati e proxies -, la questione curda, la Turchia di Erdogan, il jihadismo, la disintegrazione siriana e irachena, fornendo a Mosca innumerevoli tavoli dove sfidare Washington o, quanto meno, affermare la propria potenza e rompere l’isolamento, ma soprattutto ottenere ‘spazio di decisione‘ riguardo crisi future. Dunque, dalla prospettiva russa, la crisi siriana e l’avvicinamento con Teheran sono in gran parte da inquadrare nei rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa, e la strategia di Putin sta avendo successo.
Infatti, in Siria sono rifornimenti e aviazione russa a garantire la sopravvivenza del regime di Assad, ed è Mosca a dare il tempo delle iniziative di pace, di fatto rinviate sinché Bashar non sarà in posizione di forza, con la riconquista di Aleppo. Per scongiurare un regime change, e per garantirsi una leva strategica sul teatro, Mosca può contare anche su un accordo per l’uso permanente del porto di Tartus e sull’ombrello antiaereo offerto dagli S-400 posizionati nelle basi siriane; questi, autentici “game changer”, arrivano a colpire obiettivi in Israele e Cipro, così creando una potenziale interdizione di rilevanza strategica.
Vecchi e nuovi alleati
Però, la strategia russa non si limita alla Siria o all’avvicinamento – storicamente “innaturale” – con l’Iran. In Iraq, Mosca ha istituito un centro di intelligence congiunto con altri paesi dell’area; con l’Algeria sono stati conclusi cospicui contratti per la fornitura di armamenti, mentre con l’Egitto, oltre a forniture di armi, sono state organizzate esercitazioni militari congiunte e ci sarebbero accordi per finanziare una centrale nucleare.
E sempre l’Egitto ci indica il successo della strategia russa: in qualità di membro non permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, su Aleppo ha appoggiato la risoluzione russa e si è opposta a quella francese, scatenando le ire di Arabia Saudita e USA.