Nel giorno in cui scadeva il termine dei tre mesi per ottemperare alle raccomandazioni della Commissione Europea circa la crisi costituzionale in cui versa il paese da un anno, il governo polacco fa sapere che non seguirà le disposizioni comunicate lo scorso 27 luglio. La Polonia imbocca la strada della sfida aperta, liquidando le raccomandazioni come “espressione di un’incompleta conoscenza su come il sistema legale e il Tribunale operano” si legge nella nota stampa del ministero degli Affari Esteri, che rincara la dose sul finale qualificandole come “immotivate”. Parole e decisioni che pesano e che gettano un’ombra sinistra non solo sui futuri rapporti, già tesi, tra il paese e l’Unione Europea ma anche sulla capacità effettiva di quest’ultima di difendere lo stato di diritto dei paesi membri.
L’UE pronta a usare l’art.7?
Arrivati a questo stadio, l’unica soluzione parrebbe l’invocazione dell’art.7 del TUE – ricordiamo che fino ad oggi il confronto si è mosso sui binari del Rule of Law Mechanism, un meccanismo preventivo – che contempla la sospensione di alcuni diritti dello stato membro interessato, compresi i diritti di voto. Però non è né così scontato né facile appellarsi ad esso a causa della sua stessa configurazione: si richiede, infatti, il voto unanime del Consiglio Europeo per l’adozione delle sanzioni previste, e Viktor Orbán, il premier ungherese, già a gennaio ha fatto sapere di voler bloccare iniziative del genere. In un articolo pubblicato sul Verfassungblog, la Professoressa Kim Lane Scheppele scrive che l’unica soluzione per superare l’eventuale impasse sarebbe l’invocazione dell’articolo 7 contro Polonia e Ungheria allo stesso tempo. Un’affermazione dura che, detta a salvaguardia dello stato di diritto, lascia poco spazio al realismo politico. Infatti, nonostante l’intenzione sia quella di difendere i valori fondanti dell’Unione, può darsi che la Commissione indietreggi di fronte all’intransigenza polacca, seppur pericolosa. I tempi sono magri e purtroppo la Polonia non è l’unica ad accusare l’Unione Europea di interferenza negli affari interni. E questo il premier Beata Szydło, a cui fa eco il presidente del suo partito Diritto e Giustizia, Jarosław Kaczyński, lo sa bene: “se le istituzioni europeee continuano a funzionare in questo modo non dovrebbero stupirsi dell’aumento delle crisi e dell’Euscetticismo”, riporta il Financial Times.
Vincitori e vinti
Qualunque sia la decisione in capo all’UE, purtroppo ci saranno solo sconfitti. Se si volesse prendere tempo per evitare decisioni avventate, alcuni componenti della Corte Costituzionale polacca, oggetto del contendere, arriveranno a fine termine e il nuovo presidente potrebbe anche essere meno inflessibile o semplicemente più vicino alla linea di governo. In questo caso perderebbe il costituzionalismo polacco. Se si procedesse con l’art.7 si aprirebbero scenari difficili e la rinuncia, invece, minerebbe la credibilità dell’Unione.
Un nuovo meccanismo per monitorare lo stato di diritto
È questo il nodo che ha condotto l’europarlamento ad approvare, la scorsa settimana, una nuova iniziativa legislativa per dotare l’UE di un unico meccanismo vincolante in grado di monitorare e presentare resoconti sullo stato della democrazia e dello stato di diritto nei paesi membri. In questo modo, si legge nel comunicato stampa trasmesso dal Parlamento Europeo, si supererebbe il gap tra il monitoraggio previsto per i paesi candidati e la mancanza dello stesso per i paesi già membri e si predisporrebbe una documentazione base, elaborata grazie a un panel di esperti indipendenti, per ogni altra operazione successiva a opera della Commissione.