Dacché la Russia ha intrapreso la china della crisi ucraina si è assistito ad un crescendo di dichiarazioni e pubblicazioni sulla nuova concezione di guerra che il Cremlino parrebbe aver coniato ed implementato nei confronti dell’Occidente.
Ciò che colpisce analisti e commentatori è il tradursi della dottrina militare russa in termini non del tutto regolari né irregolari, ma entro una dimensione variabile dello spettro compreso tra questi due estremi – una guerra ibrida, appunto. Il suo fine ultimo sarebbe quella di ridurre al minimo la necessità di dispiegamento forze nel teatro di guerra e penetrare nel cuore e nella mente operativi del nemico. Qualora tutto fosse condotto con successo, il costo umano e reputazionale di un tale approccio sarebbe sicuramente minore di un coinvolgimento diretto.
A ben guardare, tuttavia, in ciò non vi è nulla di concettualmente nuovo. Osservando la questione in prospettiva storica si può infatti fare riferimento a due precedenti dottrinali di questo stile bellico.
Dal punto di vista strettamente militare, è notevole l’apporto della “teoria delle operazioni in profondità”, elaborata da Mosca nella prima metà del Novecento e proponente l’utilizzo di forze corazzate per fare breccia dietro alla linea di fronte per tagliare la catena logistica ed operativa del nemico. I “gruppi di manovra operativa” formati dall’Unione Sovietica negli anni Ottanta si rifaranno proprio a questa concezione, la quale a sua volta può ben essere ricondotta alla napoleonica manovra da tergo nonché ai concetti di Blitzkrieg tedesca e all’approccio indiretto di Liddell Hart. Elusione dei punti di forza del nemico e perseguimento di azioni rapide e decisive sono i cardini di questo pensiero.
Dall’altro lato, la componente informativo-psicologica della guerra ibrida russa è riconducibile alla “teoria del controllo riflessivo”, perla degli studi di ingegneria sociale sovietica degli anni Sessanta. Essa si propone di interferire con i processi decisionali dei vertici politico-militari e, sfruttandone le debolezze cognitive e morali, spingerli ad implementare (in)volontariamente le decisioni precedentemente determinate dal controllore. Ancora una volta, quindi, si tratta di un metodo di ingaggio indiretto, ora del tutto trascendente il contatto militare con il nemico; tramite accurate forme di distorsione e sovraccarico informativi lo stratega sovietico si proponeva di plasmare a proprio favore le scelte dell’avversario, senza che questi se ne accorgesse.
Guardando alla contemporaneità, le linee fondamentali di queste dottrine sono palesemente riscontrabili nel caso dell’Ucraina. Si può però a buon titolo sostenere che l’Occidente in generale sia sottoposto ad una raffinata azione di tipo informativo-psicologico atta a reindirizzarne progressivamente l’attitudine verso la Russia – in particolare tramite il canale non istituzionale dei nuovi media.
Come si è potuto vedere, quindi, l’approccio operativo della Federazione Russa non risulta nuovo nei propri principi guida. Da un lato, si rifà ai cardini della strategia moderna; dall’altro, richiama le tecniche di controllo sociale sviluppate dall’Unione Sovietica. Una miscela che certamente porta il conflitto su un livello non strettamente convenzionale, ma che dovrebbe ad ogni modo essere comprensibile da parte dell’Occidente. Nel tempo è certamente cambiata la metodologia di impiego pratico-tattica, con i carri armati sostituiti dalle forze speciali e un più spiccato accento sulla tecnologia informatica, ma la sostanza – quella di un approccio indiretto – è rimasta invariata.
L’affannarsi del cosiddetto schieramento occidentale a seguito di questa guerra ibrida, dunque, pare gettare qualche dubbio sulla reale prontezza dell’Occidente stesso.