Ad inizio mese si sono tenute le elezioni municipali in Bosnia Erzegovina. In un frangente politico avvelenato dal recente referendum sulla giornata nazionale della Republika Srpska, i partiti nazionalisti hanno dominato la tornata elettorale con poche sorprese. Chi è avvezzo al circo politico bosniaco sa bene che le elezioni garantiscono immancabilmente svariati momenti paradossali. Ma queste elezioni locali sembrano aver sospinto la soglia del possibile ancora oltre l’usuale.
Nonostante la loro importanza risibile, infatti, queste elezioni amministrative si sono trasformate in un teatro dell’assurdo, arricchendo la sempreverde retorica dello scontro tra le tre comunità nazionali maggioritarie di una galleria di storie curiose e candidati improbabili. Specchio della stagnazione politica che paralizza il paese, un clima surreale ha marchiato questa competizione elettorale.
Cambia il tempo, ma noi no
Come da tradizione, in campagna elettorale le tematiche meramente politiche, come la disoccupazione al 40%, o il farraginoso processo di avvicinamento all’UE, non paiono al centro della tenzone. Anche queste elezioni, infatti, hanno certificato la nullità in termini elettorali, dei movimenti sociali nati dalla protesta dei plenum della primavera del 2014, le uniche forze intenzionate ad affrontare questioni politiche in una prospettiva non nazionalista (uno degli slogan era “abbiamo fame in tre lingue“). Per le rivoluzioni colorate, allora, c’è ancora tempo, come sa bene il neo-sindaco (satrapo) di Teočak, saldamente in carica da 22 anni.
A queste elezioni è stato candidato chiunque potesse capitalizzare una qualche briciola di popolarità: rapper, concorrenti di reality show, boxeur, cantanti folk ed ex-cestisti. Se nell’epoca del marketing politico questa prassi è comune anche fuori dalla Bosnia, in un sistema democraticamente deficitario come quello dell’etnopoli bosniaca la candidatura di personaggi popolari ma sprovvisti di alcun background politico allontana ulteriormente la possibilità che si smetta di parlare solo di identità e si cominci a parlare di amministrazione della cosa pubblica strictu sensu. Figure elette non in base a piattaforme politiche, ma grazie ad una fama costruita su palchi e parquet, riproducono la medesima dinamica di voto identitario, anche quando non nazionalista, degli attori che dominano la scena politica bosniaca dall’indipendenza del paese nel 1992. Tutto deve cambiare, affinché nulla cambi. Si veda il gradito ritorno di Fikret Abdić, criminale di guerra (e tante altre cose), consacrato nuovo sindaco di Velika Kladuša. E non è un caso isolato: altri quattro condannati siederanno in giunta fin al 2020.
Elezioni e tensioni: vecchi difetti
Precedute dagli scambi al vetriolo tra Dodik ed Izetbegović nel post-referendum, le rispettive campagne elettorali non si sono fatte mancare provocazioni scontate, né la solita ragnatela di minacce incrociate. Come prevedibile, questa tensione non è rimasta arginata nell’arena del politically incorrect, ma è sfociata anche in votazioni poco ortodosse. Se a Mostar neppure si è riusciti a votare, è toccato a Srebrenica vivere i momenti di maggior incertezza. In seguito ad accuse di voti trafugati e conteggi poco limpidi, sono intervenute ai seggi forze speciali della polizia della Republika Srpska. Questo gesto forse dovuto, richiamando alla memoria i noti fatti del luglio 1995, ha contribuito ad amplificare il senso di disagio e spaesamento dei cittadini bosgnacchi di Srebrenica, che hanno quindi contestato l’esito delle votazioni. In una fase di confusione totale, i voti sono stati riconteggiati e Srebrenica avrà il suo primo sindaco serbo dalla fine della guerra. Una novità che sa tanto di vecchio.
Foto: Clark e Kim Kays