di Giorgio Fruscione
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE A SARAJEVO – Ratko Mladic, da 16 anni noto come Milorad Komadic, giovedì scorso ha terminato la sua “fuga”. Una fuga statica, immobile, al punto da poter esser considerata come un pensionamento. Un generale in pensione, vecchio e malato, che trascorre la propria vecchiaia nelle campagne della Vojvodina, a casa di un cugino. È questa l’ultima immagine che ci arriva dell’alto comandante dell’esercito della Republika Srpska: il boia responsabile delle più gravi atrocità commesse nei Balcani, tra le quali il genocidio di Srebrenica – l’enclave protetta, e quindi abbandonata, dal contingente olandese Onu –, la più grande violazione dei diritti umani perpetrata in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale.
Nato nel 1942 in un villaggio della Bosnia orientale, Mladic intraprende la carriera militare a Skopje. Con lo scoppio delle ostilità in Croazia, nel 1991, è tra i generali del Jna (Esercito Popolare Jugoslavo) che “difendono” la Krajna, territorio croato abitato da serbi e autoproclamatosi indipendente. Quando la Jugoslavia aggredisce anche la Bosnia, il generale Mladic prepara l’assedio a Sarajevo (il più lungo nella storia contemporanea) bombardando “ad intervalli lenti e continui i quartieri dove vivono i musulmani, fino a farli impazzire” (come riportato dalla famosa comunicazione radio col colonnello Vukasinovi). Una volta autoproclamata la Republika Srpska metterà in pratica i disegni di pulizia etnica studiati a tavolino dal suo presidente, Radovan Karadžic. A guerra conclusa, l’Icty (Tribunale internazionale per i crimini commessi nella ex Jugoslavia) emette contro di lui un mandato di cattura per genocidio, crimini contro l’umanità e violazioni delle consuetudini di guerra.
La Serbia del progressista ed europeista Tadić lo ha finalmente catturato, dopo averlo protetto per sedici anni. Durante questo lungo periodo, l’immagine del boia di Srebrenica ha avuto modo di usufruire della mancanza di verità, comune e condivisa. Seguendo i consueti circuiti del revisionismo storico infatti, la figura di Mladic è stata sottoposta alle più svariate interpretazioni: idolatrato come eroe popolare nella madrepatria Serbia; difensore del popolo nella Republika Srpska; e infine Patriota per l’europarlamentare leghista Mario Borghezio, per il quale Mladić e “i serbi hanno provato a fermare l’avanzata islamica in Europa, ma non li hanno lasciati fare”.
In questi sedici anni, nella Bosnia odierna, le speranze per una verità comune e condivisa sono state riposte nelle sentenze del tribunale internazionale ad hoc, quello stesso tribunale spesso accusato di essere antiserbo e quello stesso tribunale che, con l’obiettivo di rendere una giustizia universale, dovrebbe innescare un processo di verità e riconciliazione, ma il cui lavoro ha comportato diverse interpretazioni della verità e un venir meno del processo riconciliante. Come noto, esiste una verità per ogni singola fazione di guerra e la riconciliazione rimane ferma agli schemi etnici imposti a Dayton. Ed è cosi che l’immagine di Mladić, varcando quel confine più ideologico che geografico che dalla Federazione BiH porta alla Republika Srpska, passa da “boia sanguinario” a “eroe popolare”.
Quello stesso processo di verità e riconciliazione che si è avuto in Argentina, El Salvador e in Sudafrica e che lentamente sta contribuendo a recuperare un tessuto sociale logorato dall’odio ma che in Bosnia è reso ancor più difficile dalla cristallizzazione delle frontiere di guerra.
Ecco quindi che il lavoro della giustizia non sarà solo quello di rendere quanto deve a chi deve, ma soprattutto quello di formare una coscienza della verità storica che sia universale, che sia condivisa da tutti, a prescindere da ogni distinzione e che porti al riconoscimento degli errori comuni. Solo così la guerra nei Balcani potrà dirsi finita.
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