Il progresso tecnologico e la ricerca scientifica segnano da sempre la vita umana, e “ossessionano” quella degli Stati. L’ambizione a primeggiare in questo ambito ha contraddistinto particolarmente l’epoca della Guerra Fredda, ed oggi la questione nucleare è ancora un tema sensibile in ambito internazionale in merito a determinati paesi. Un recente progetto fotografico racconta parte di questa storia in cui tuttavia l’uomo scompare dalla scena e se ne evidenzia il lato oscuro.
Con Resticted Areas, il giovane Danila Tkachenkos esplora con i suoi scatti luoghi simbolici sotto il punto di vista tecnologico nell’ex territorio sovietico, nel tentativo di imprimere nella memoria ciò che è scomparso da tempo o che è stato volutamente celato per anni. Tra il 2013 e il 2015 il fotografo russo ha viaggiato tra le varie repubbliche della Russia odierna, in Bulgaria e in Kazakistan e dato vita a una serie di “ritratti” ove la presenza umana è del tutto assente e va immaginata in un passato che sembra remoto se non mai esistito.
Città fantasma come Chelyabinsk-40, teatro della prima catastrofe nucleare nel 1957, tenuta nascosta e comparsa per la prima volta nelle mappe sotto Yeltsin, capsule aerospaziali, un sottomarino diesel, l’aeroplano VVA14, un quartier generale del Partito Comunista, osservatori abbandonati. Tutte strutture e macchinari dismessi, deserti e dimenticati, il cui accesso è in alcuni casi interdetto o soggetto a controlli. Lo sfondo delle foto è sempre lo stesso: il bianco abbaiante della neve e del cielo sovrastante che accentuano la materialità e la presenza nello spazio. A volte la foto mostra con chiarezza il suo soggetto, come nel caso della nave Bulgaria affondata nel Volga nel 2011 trascinandosi negli abissi 122 anime. La grandiosità della tecnica è in primo piano, richiamandosi alla retorica del regime, Tkachenkos capovolge il significato di un trionfo finito in catastrofe o abbandonato a sé stesso, senza più alcuna importanza. Altre volte invece, soprattutto nel caso di complessi abitativi sorti attorno a centrali nucleari, una leggera foschia ne lascia intravedere i contorni e accentua in tal modo la solitudine del luogo e indirettamente i limiti dell’utopia del controllo assoluto dell’uomo sulla natura.
Ma il progetto non è fatto solo di foto. Una serie di documenti d’epoca, compresa una copia del trattato START I, stralci di giornali o libri e riviste specializzate tra cui ad esempio spicca il sorriso inconfondibile di Juri Gagarin e una serie di oggetti fanno da corollario alla mostra itinerante, fino a fine ottobre di stazione presso la Fotogalerie Friedrichshain a Berlino. La chicca che spinge a prolungare la visita è il film drammatico in bianco e nero Nove giorni in un anno (Девять дней одного года) del regista Mikhail Romm. Girato nel 1962 e vincitore nello stesso anno del Crystal Globe, racconta la storia, parzialmente basata su eventi realmente accaduti, di un gruppo di fisici nucleari in una località siberiana. Una trama che include anche una storia d’amore di sottofondo tra due dei protagonisti, con le introspezioni e i dubbi della donna che si alternano a momenti di gioia collettiva in seguito ad importanti conquiste in laboratorio.
Il progetto può essere considerato una sorta di archeologia della memoria. Un pezzo di storia riprende vita attraverso questi scatti e spinge a riflettere sul significato e i limiti del progresso scientifico a tutti i costi.
Foto: mostra Restricted Areas/Francesca La Vigna