BALCANI: C’era una volta un ponte. Mostar raccontata ai ragazzi

C’era una volta la Jugoslavia, un grande stato che andava dalle montagne al mare, pieno di belle città, di gente laboriosa. Era un posto particolare perché in Jugoslavia, a differenza che altrove, si parlavano molte lingue e si credeva in tante religioni diverse. C’erano i croati cattolici, i serbi ortodossi, i bosgnacchi e gli albanesi di religione musulmana, i rom con le loro antiche usanze, gli ebrei che lì avevano trovato rifugio dalle persecuzioni. Un grande mosaico di gente che aveva imparato a stare insieme malgrado le differenze. Ma un giorno tutto questo finì. La pace della Jugoslavia si spezzò come un cristallo, bello ma delicato, andando in mille pezzi. Perché? Perché c’erano dei politici che volevano il potere e per ottenerlo hanno messo le persone le une contro le altre, hanno mentito, hanno detto che gli amici di ieri erano i nemici di oggi. Hanno detto che chi era di un’altra religione andava eliminato, che bisognava fare “pulizia” di chi era diverso. Dopo un po’ la gente ha cominciato a credere a tutte quelle menzogne perché se ripeti una bugia tante volte, alla lunga sembra vera. Così un giorno qualcuno ha sparato a qualche vecchio amico, a un vicino di casa, a uno con cui prima beveva il caffè. L’ha ammazzato. E così è cominciata una sparatoria, e poi un’altra, finché è diventata una guerra. Una guerra civile.

Era il 1991 quando tutto iniziò. Si bruciarono i villaggi, si uccisero le donne, i vecchi, i bambini. Non c’era dove fuggire, la guerra era ovunque. Lo scopo era eliminare tutti quelli che non appartenevano al proprio popolo, passare un colpo di scopa su chi era di un’altra religione, eliminare chi era diverso, allontanarlo dalle proprie case, cacciarlo via come se fosse sporcizia. Questa cosa terribile si chiama ‘pulizia etnica’.

La guerra arrivò fino a Mostar, una storica città divisa in due parti da un fiume, la Neretva. Da una parte vivevano i croati cattolici, dall’altra i musulmani bosniaci. Da secoli c’era un ponte a unirli. Il ‘ponte vecchio’. Un simbolo di unità, di amicizia. Il ponte aveva cinquecento anni, era antico e pieno di ricordi, conservava la memoria della città. Una città che da quel ponte prendeva il nome: most, nella lingua locale, vuol dire “ponte” e Mostar era quindi “la città del ponte”. Il ponte era il suo cuore. Il ponte teneva insieme le due sponde, univa i musulmani e cattolici. Si attraversava il ponte per andare a prendere il caffè da Bakir, il vecchio baffuto che da decenni gestiva una frequentatissima caffetteria nel quartiere musulmano. E i musulmani andavano dai croati a fare spesa, a parlare con gli amici, a trovare il fidanzato. Già, perché il ponte unisce le persone e mette in contatto i loro sentimenti. Quanti innamorati si sono baciati sul ponte! E la religione non contava granché. Ma quando venne la guerra, anche a Mostar qualcuno cominciò a sparare. Il vecchio Bakir fu ammazzato senza motivo davanti alla sua caffetteria. Non tutti però accettarono di odiarsi e uccidersi senza motivo. A unirli c’era ancora il vecchio ponte. Allora i soldati croati decisero di abbatterlo, prendendolo a cannonate finché non crollò nella Neretva.

Dopo il crollo del ponte la guerra esplose con tutta la sua violenza. Morirono le madri, morirono i figli, e le vittime cominciarono a odiare gli assassini. E gli assassini erano da tutte e due le parti. L’odio mise radici profonde nel cuore degli abitanti di Mostar. Poi finalmente la guerra finì, era il 1994. I politici avevano ottenuto il loro scopo: la Jugoslavia non c’era più. Al suo posto c’erano tanti piccoli staterelli e loro adesso li governavano. A Mostar si ripescarono dal fiume le pietre del ponte crollato e con quelle stesse pietre venne ricostruito. Sembrava lo stesso di prima, ma non lo era più. La gente si odiava ancora. Troppo forte il dolore per le persone uccise, troppo grande il rancore nei confronti dell’altro. I croati non perdonavano i musulmani, i musulmani non perdonavano i croati. Adesso il ponte è lì dove era prima della guerra, ma non unisce più i cuori, non porta più dagli amici. La caffetteria di Bakir è chiusa per sempre. Perché quando cade un ponte tra gli uomini, non basta la pietra a ricostruirlo.

Chi è Matteo Zola

Giornalista professionista e professore di lettere, classe 1981, è direttore responsabile del quotidiano online East Journal. Collabora con Osservatorio Balcani e Caucaso e ISPI. E' stato redattore a Narcomafie, mensile di mafia e crimine organizzato internazionale, e ha scritto per numerose riviste e giornali (EastWest, Nigrizia, Il Tascabile, Il Reportage). Ha realizzato reportage dai Balcani e dal Caucaso, occupandosi di estremismo islamico e conflitti etnici. E' autore e curatore di "Ucraina, alle radici della guerra" (Paesi edizioni, 2022) e di "Interno Pankisi, dietro la trincea del fondamentalismo islamico" (Infinito edizioni, 2022); "Congo, maschere per una guerra"; e di "Revolyutsiya - La crisi ucraina da Maidan alla guerra civile" (curatela) entrambi per Quintadicopertina editore (2015); "Il pellegrino e altre storie senza lieto fine" (Tangram, 2013).

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