SERBIA: “Milošević è innocente”. Ma non è vero

Da BELGRADO – Nel mese di agosto, su alcuni media serbi, è girata molto la notizia secondo la quale Slobodan Milošević, l’ ex presidente morto all’Aja nel 2006, sarebbe stato “assolto da tutte le accuse” dal Tribunale penale internazionale per i crimini commessi nell’ex-Jugoslavia. Anche il giornalista italiano Giulietto Chiesa aveva rilanciato la notizia relativa all’innocenza di Milošević, sottolineando come nessun media occidentale ne avesse parlato. Tuttavia, si tratta di una sbagliata interpretazione, se non addirittura di revisionismo a scopo propagandistico.

Ad aver diffuso questa storia è il giornalista britannico Neil Clark, intervistato dalla Tv russa “Russia Today”, in seguito alla sentenza dello scorso 24 marzo (consultabile qui), quando il tribunale dell’Aja condanna l’ex presidente della Republika Srpska, Radovan Karadžić, a 40 anni di prigione (massimo della pena).
Nella sentenza in questione, lunga 2590 pagine, tra le altre cose, si legge che “non esistono prove sufficienti a dimostrare che Slobodan Milošević fosse d’accordo con il piano comune [di creare territori etnicamente puliti dai non-serbi]…” e ancora che “Milošević fornì assistenza nella forma di personale, logistica e armi ai serbo-bosniaci durante il conflitto.” Quel che ne risulta è che, dato che nella sentenza Karadžić non viene nominato Milošević tra i colpevoli, non solo egli risulterebbe innocente ma verrebbe effettuato del revisionismo in chiave nazionalista circa la sua politica.

In realtà, la sentenza riguarda Milošević solo di striscio, in quanto si esprime solo ed esclusivamente in merito a Radovan Karadžić. Slobodan Milošević – responsabilità storiche a parte – non può essere stato esonerato in un processo nel quale non era imputato, e ciò non può cambiare in nessun modo il destino del processo e della responsabilità criminale di cui è stato imputato. Ovvero, si tratta di due processi separati e la colpevolezza di Karadžić non scagiona Milošević dalle proprie responsabilità.

Questa interpretazione circa la liberazione di Milošević dai capi di accusa e dalle responsabilità per la guerra in Jugoslavia rappresenta da un lato il naturale risultato dell’atmosfera politica di Belgrado, sempre più paragonabile ad un flashback degli anni Novanta; e dall’altro, il tentativo politico di riabilitare un altro personaggio della storia della Serbia, che a torto o ragione, è stato demonizzato come il “boia dei Balcani” e sul quale sono state fatte pendere, in modo inappropriato dalla stampa occidentale, tutte le colpe per le guerre in Jugoslavia.

Il revisionismo storico è una tendenza molto in voga in Serbia negli ultimi anni. Negli ultimi due anni, infatti, una sentenza ha riabilitato il leader dei cetnici durante la seconda guerra mondiale Draža Mihailović, mentre è tutt’ora in corso il processo presso l’alto tribunale di Belgrado che vorrebbe la riabilitazione di Milan Nedić, primo ministro dello stato fantoccio collaborazionista dal ’41 al ’44.

Anche se la riabilitazione di Milošević non poggia su alcuna sentenza di tribunale, ma solo su una sua interpretazione sbagliata, il processo di revisione storica andrebbe anche in questo caso letto come un revival nazionalista. Il partito che fu di Milošević, il Partito Socialista Serbo, ora presieduto da Ivica Dačić e alleato del governo Vučić per la seconda legislatura consecutiva, si è spinto addirittura oltre, proponendo di erigere un monumento in onore all’ex presidente.

Il revival nazionalista intorno alla figura di Milošević lo vedrebbe come ultimo baluardo a difesa della dignità nazionale serba, contro le forze imperialistiche euroatlantiche che hanno bombardato la Serbia nel 1999. Quindi, da parte dei partiti di destra serbi, il supporto a Milošević deriverebbe dalla sua capacità di porsi a difesa dell’interesse nazionale serbo e della sua unità contro l’aggressione occidentale; mentre dall’altra parte, per gli ambienti più vicini al partito socialista, egli si è comunque contraddistinto nella lotta antimperialista come “ultimo pioniere del socialismo”. E ciò in un periodo in cui la Serbia è sempre più oscillante tra una più sostenuta collaborazione con la NATO e la Russia di Putin.

La realtà, invece, è che Milošević tradì la compattezza nazionale serba, alimentando la retorica gran-serba che avrebbe poi avuto come risultato l’esodo di massa delle popolazioni dalla Krajina e dal Kosovo, come conseguenza di pulizia etnica derivate da guerre da lui stesso ricercate; ed allo stesso tempo egli tradì i valori socialisti su cui poggiava la sua azione politica, considerato il collasso sociale ed economico dovuto alla chiusura e privatizzazione delle fabbriche fiorite nel periodo dell’autogestione jugoslava.

La morte di Slobodan Milošević nel 2006 arrivò prima che egli potesse essere assolto o condannato per i capi d’accusa di cui era imputato, ma in nessun modo una sentenza riguardante un altro imputato può rimettere in discussione il suo ruolo politico, economico e militare nel processo di dissoluzione jugoslava.

Quel che invece va riconosciuto anche da morto a “Slobo” è la sua capacità, che lo contraddistinse nel periodo in cui arrivò al potere alla fine degli anni Ottanta, di continuare a coniugare gli interessi del partito socialista con retoriche di carattere puramente nazionalista.

Chi è Giorgio Fruscione

Giorgio Fruscione è Research Fellow e publications editor presso ISPI. Ha collaborato con EastWest, Balkan Insight, Il Venerdì di Repubblica, Domani, il Tascabile occupandosi di Balcani, dove ha vissuto per anni lavorando come giornalista freelance. È tra gli autori di “Capire i Balcani occidentali” (Bottega Errante Editore, 2021) e ha firmato due studi, “Pandemic in the Balkans” e “The Balkans. Old, new instabilities”, pubblicati per ISPI. È presidente dell’Associazione Most-East Journal.

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