I Giochi Olimpici di Rio 2016 saranno ricordati per la prima partecipazione di Kosovo e Sud Sudan, ma soprattutto per un altro motivo: per la prima volta il Comitato Olimpico Internazionale ha voluto volgere lo sguardo alle vicende dei rifugiati di tutto il mondo. Lo ha fatto con due gesti simbolici molto potenti: il transito della fiaccola olimpica per il campo rifugiati di Eleonas, in Grecia, dove la fiamma è stata portata anche da un nuotatore paralimpico fuggito dalla Siria. E, soprattutto, l’istituzione di una squadra olimpica di rifugiati, che per la prima volta nella storia sfilerà stasera nella tradizionale Parata delle Nazioni, punto culminante della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi.
A comporre la squadra saranno cinque atleti sud-sudanesi, due siriani, un etiope e due della Repubblica Democratica del Congo. La portabandiera sarà Rose Lokonyen, ottocentista sud-sudanese che ha scoperto il proprio talento un anno fa nel campo profughi di Kakuma, in Kenya. La famiglia della Lokonyen fuggì dal Sudan meridionale tredici anni fa, quando Rose aveva solo dieci anni.
La Lokonyen, insieme ai quattro compatrioti, forma il cuore della squadra di atletica della delegazione dei rifugiati. Con lei il quattrocentista James Chiengjiek, orfano di guerra fuggito a tredici anni per evitare un destino come bambino soldato, l’ottocentista Yiech Biel e i mezzofondisti Paulo Lokoro (1500 m maschili) e Anjelina Lohalith (1500 m femminili). Tutti e cinque gli atleti vivono da anni nel grande campo profughi di Kakuma, nel Kenya meridionale: si tratta di uno dei centri più grandi al mondo, con quasi 180.000 ospiti.
A completare la squadra di atletica leggera è il trentaseienne maratoneta etiope Yonas Kinde, accolto come rifugiato dal Lussemburgo dal 2013. A differenza dei compagni sud-sudanesi, ha iniziato la sua carriera nella corsa nel paese natale. Il suo record personale è di 2 ore e 17 minuti.
Competeranno nel judo entrambi gli atleti congolesi, Popole Misenga e Yolante Mabike. Entrambi provengono dall’area di Bukavu, colpita severamente dal conflitto del 1998 ed entrambi vennero separati dai propri genitori (Misenga perse la madre, uccisa quando aveva solo sei anni) e posti in un orfanotrofio di Kinshasa. Entrambi gli atleti hanno sfruttato lo sport per richiedere asilo politico: durante i Mondiali di judo di Rio del 2013, confinati nell’albergo dagli allenatori – che avevano confiscato soldi e passaporti – decisero di fuggire, spiegando che gli allenatori li deprivavano di cibo e li chiudevano in delle gabbie quando la loro performance lasciava a desiderare. L’UNHCR ha garantito a entrambi lo status di rifugiati nel settembre 2014 e Misenga ha sposato una donna brasiliana, da cui ha avuto un figlio.
Infine, i due atleti siriani saranno impegnati nelle competizioni di nuoto. Rami Anis (100 m farfalla) è nato e cresciuto ad Aleppo e si è avvicinato al nuoto seguendo il modello dello zio Majic, che aveva rappresentato la Siria come nuotatore. Fuggito nel 2011, quando la situazione di Aleppo stava precipitando, Anis raggiunse il fratello maggiore a Istanbul, allenandosi presso gli impianti del club sportivo Galatasaray. Dopo aver lasciato la Turchia a bordo di un gommone, ha raggiunto il Belgio, che gli ha concesso l’asilo lo scorso dicembre.
Gareggerà invece nei 200 m a stile libero Yusra Mardini, siriana di famiglia cristiana cresciuta a Damasco che nel 2012 rappresentò la Siria ai Campionati Mondiali di Nuoto in piscina da 25 m. Nel 2015, dopo la distruzione della casa di famiglia, Yusra decise di fuggire dalla Siria con la sorella Sarah, raggiungendo la Turchia attraverso il Libano. La traversata verso la Grecia fu drammatica: il motore si fermò e il gommone, che portava tre volte il suo carico massimo, iniziò a imbarcare acqua. Le due sorelle, insieme ad altre due persone in grado di nuotare, si tuffarono in acqua, spingendo l’imbarcazione per tre ore fino a raggiungere l’isola di Lesbo. Ora le due sorelle vivono a Berlino.