Andrea Sceresini, reporter di guerra, ha realizzato numerosi reportage da zone calde del mondo. Quest’estate, assieme a due colleghi, ha trascorso un mese nel Donbass e ha raccontato dalla prima linea la guerra dimenticata del sud-est dell’Ucraina. L’abbiamo intervistato per avere una testimonianza diretta della carneficina che da due anni si svolge nel cortile di casa dell’Unione Europea.
Andrea, come hai preparato il tuo reportage dal Donbass?
Siamo partiti in tre: io come giornalista, il videoreporter Lorenzo Giroffi e Alfredo Bosco, fotografo. Il reportage è durato un mese, trascorso quasi esclusivamente nella zona di Donetsk. Trovandoci sulle liste nere dell’Ucraina, abbiamo dovuto passare dalla Russia. Il viaggio l’abbiamo organizzato grazie a un crowdfunding del progetto Occhi della guerra e abbiamo cercato di lavorare unicamente con mezzi nostri, limitando al massimo l’utilizzo di fixer, le ingerenze degli uffici stampa militari e qualsiasi altro tipo di filtro. Abbiamo studiato anche basi di russo.
Com’è la vita dei miliziani là?
Molto dura. Ma è dura soprattutto la vita della popolazione civile. Ogni giorno, nell’ultimo mese, si sono sparati su entrambi i fronti fino a duemila colpi di cannone. Migliaia di case distrutte, la gente senza lavoro, risparmi finiti, non ci sono prospettive.
Un esempio? La Repubblica di Donetsk ha emesso i nuovi passaporti, ma sono riconosciuti solo dalla Russia, dalla Bielorussia e da qualche stato caucasico. E i vecchi passaporti ucraini non sono stati rinnovati. Dunque, per migliaia di cittadini del Donbass lasciare il Paese per rifugiarsi, ad esempio, in Occidente è letteralmente impossibile. Non solo casa, lavoro e familiari: gli abitanti di Donetsk e Lugansk hanno perso anche la speranza nel futuro.
Eri già stato in Ucraina. La situazione è cambiata dalla tua prima volta?
Poco, la guerra continua. Anzi, questo giugno è stato il mese più violento da un anno a questa parte. Le uniche differenze sono esteriori. Nel centro di Donetsk sono stati riaperti molti negozi, la vita è ricominciata, molti cittadini sono tornati alle loro case, hanno piantato nuovi fiori nelle aiuole, riverniciato gli edifici storici… Ma basta percorrere qualche chilometro, però, per ritrovarsi in mezzo alla solita distruzione. Tra le cannonate e i colpi di mitragliatrice.
Cosa si prova a condividere la vita con i miliziani?
Sono sensazioni difficili da descrivere. Diciamo che, tra tutte le forme di aggressione fisica, il bombardamento con ordigni di grosso calibro (152 mm) è senza dubbio tra le meno simpatiche. La terra trema, lo spostamento d’aria è così forte da abbattere muri di cemento. Le apparecchiature elettroniche si impallano e anche le tua memoria a breve termine fa dei vistosi salti. Ti senti assolutamente impotente e in balia di forze che non puoi né controllare né prevedere.
Durante un bombardamento, un paio di miliziani che erano con noi sono rimasti sotto shock e mandati in ospedale il giorno seguente. Sai cosa è incredibile? Tutte le notti, nell’indifferenza assoluta dei media occidentali, migliaia di ragazzi come noi vivono esperienze del genere nelle trincee del Donbass, come le vivono i civili nelle loro abitazioni. Tu fai le tue riprese e te ne vai via, loro invece rimangono lì.
Quale è stata l’esperienza emotivamente più forte?
Verso le 10 di sera, stiamo intervistando un miliziano in una postazione avanzata, nel villaggio di Spartak. Improvvisamente la nostra postazione viene presa di mira dalle artiglierie ucraine. Il primo colpo arriva con un fischio fortissimo. Facciamo appena in tempo a raggiungere l’imbocco del bunker, fortunatamente a due metri da noi, quando veniamo investiti dall’esplosione e dalla pioggia di schegge. Mentre siamo sotto con i miliziani, almeno altri cinque ordigni esplodono sulla nostra postazione. Scopriremo il mattino dopo che il più vicino è scoppiato a 10 metri da noi, lasciando un cratere profondo più di due metri. Siamo riusciti a documentare questi momenti con un video:
Cosa pensi delle azioni dell’Unione Europea riguardo alla guerra del Donbass?
L’UE non agisce. La guerra nel Donbass è una pagina vergognosa della quale nessuno si sta occupando, soprattutto a livello europeo. L’esistenza stessa di questo conflitto dimostra come l’UE non sia stata in grado, nel corso di due anni, di fare qualcosa di concreto per evitare che a due passi dai propri confini si verificasse un simile macello. I “mandanti” del conflitto si trovano a Mosca e a Washington: le due potenze si stanno sfidando in un duello per procura a bassa intensità. Bruxelles è costretta a osservare in silenzio. Evidentemente non ci fa una grande figura.
Nei media italiani, c’è una rappresentazione distorta di questo conflitto?
I media italiani hanno smesso di parlare di questo conflitto ormai da diversi mesi. In Italia si parla di “crisi del Donbass”, evitando accuratamente la parola “guerra”. Va aggiunto, inoltre, che i media occidentali, soprattutto quelli italiani, vivono in una condizione di crescente cialtronaggine, specie per quanto riguarda gli esteri. Preferiscono parlare d’altro. Le uniche eccezioni sono rappresentate dalle contrapposte propagande, filo-russa e filo-ucraina, che anche da noi hanno una certa eco. In questo caso, ovviamente, i fatti vengono distorti a seconda della bisogna.
Vivendo la situazione di persona, credi che sia possibile rimanere imparziale?
Non credo che sia possibile restare imparziali. Ciò, tuttavia, non significa schierarsi con una delle due fazioni. Come dicevo, ritengo che la guerra nel Donbass sia uno scontro tra potenze contrapposte, divise da interessi economici e strategici, le cui conseguenze stanno martoriando da due anni un’intera regione e coloro che ci abitano. Queste potenze strumentalizzano i contrapposti nazionalismi, inesistenti fino a qualche anno fa (“ucrofoni” e russofoni vivevano come fratelli all’interno dello stesso stato), foraggiandoli con armi e munizioni. Prescindere da questo scenario concentrandosi sui pretesti (chi ha invaso chi, chi possedeva cosa) significa tapparsi gli occhi, facendo il gioco di chi sta fomentando questa guerra. Questa presa di posizione è la cifra della mia non imparzialità. Ho cercato di trasferirla nel mio lavoro.
In Ucraina sei andato per Gli Occhi della Guerra. Come è nata questa collaborazione con Il Giornale?
Hanno accettato di organizzare un crowdfunding per inviarci nel Donbass. Ci hanno fornito un’assicurazione sulla vita e messo a nostra disposizione, oltre al supporto attivo di un’intera redazione, anche parecchio materiale tecnico. Era la prima volta, onestamente, che ci veniva offerta una simile occasione; nel panorama sconcertante dell’informazione italiana equivale a un vero e proprio miraggio.
Grazie al crowdfunding, i reportage di guerra possono essere finanziati direttamente dai lettori, che in questo modo diventano protagonisti attivi dell’informazione e possono selezionare i progetti che ritengono di maggior qualità. Credo che si tratti di un’intuizione rivoluzionaria che potrebbe aprire nuove strade a decine di freelance come me. Abbiamo accettato e ci siamo messi al lavoro.
Lo sai che questo mese anche East Journal ha lanciato un crowdfunding per il suo primo reportage? Scopri qui come sostenerlo: siamo già a 700 euro. Anche 10 euro ci possono aiutare.
Per i vostri reportage usate una tecnologia molto innovativa.
Realizziamo i reportage con una telecamera panoramica a 360°. Grazie al 360° lo spettatore può immergersi in prima persona all’interno del conflitto, rivivendo le sensazioni di chi tutti i giorni vive, lotta e muore tra le trincee del Donbass. E’ una sorta di “pugno nello stomaco formato 2.0”. Forse potrebbe rappresentare il futuro del reportage di guerra. Ovviamente, si tratta di una tecnologia che ancora deve essere sviluppata. A quanto so, siamo stati i primi a realizzare un lavoro del genere da un campo di battaglia. Noi certamente lo ripeteremo.
Cosa significa fare il giornalista free-lance nel 2016?
Avere un sacco di idee e vederne realizzata una su dieci, rimboccarsi le maniche e vivere in stretta simbiosi con una serie di cose noiosissime come la contabilità, le fatture, gli scontrini… Passi un sacco di tempo a fare cassa. Ma quando parte il progetto in cui credi, ti rendi conto che in fondo stai facendo il lavoro più bello del mondo.
Cosa ti spinge a fare questo lavoro?
La voglia di fare qualcosa di utile, sia per gli altri che per me.
Foto: Alfredo Bosco